URGENZE

 

 

 

b4e0dd1650707dc378e5bc5735de1a1d.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scrivimi una lettera.

Mandami una mail.

Fammi un telegramma o mandami un piccione.

Ma trova il modo di dirmi che mi vuoi ancora.

Ripetimi quello che mi dicevi ieri sera. E’ passato troppo tempo da ieri sera.

Non fare caso al mio mal di testa, fammelo passare.

Non ascoltare quando dico che sento caldo. Fammelo passare.

Fammi passare la noia degli odori ripetuti.

Usa quelle parole,usa  le tue mani, usa le tue labbra, usa il tuo corpo.

E portami via da qui, senza svegliarmi.

SOTTINTESI

 

Spesso Dio mi dice cose incredibili.

Io taccio.

Mi rendo conto che non ci può essere competizione.

Mentre Lui vede le cose da una prospettiva celeste, io mi limito ad una visuale maldestra.

Ho una scusa.

Sono umana e Lui lo sa.

Sa che faccio quello che posso.

Ed è molto, molto più difficile.

 

MALAMORE

1ab3552b7a4a51e8141932c657658d44.jpg

 

Iniziò con una lacrima silenziosa che le scivolò sul naso fino a raggiungere la punta per poi cadere sul libretto delle orazioni.

Nessuno si preoccupò: era normale esternare l’emozione, date le circostanze.

I singhiozzi iniziarono subito dopo la seconda lettura. Erano sommessi, quasi impercettibili.

Da dietro qualcuno le allungò un fazzoletto. Se lo vide apparire davanti e senza neppure girare il capo per ringraziare, lo afferrò con rabbia e se lo portò al naso.

Sentì un braccio cingerle le spalle e con stizza se lo scollò di dosso.

All’elevazione anche quelli dell’altra navata sentivano distintamente quel pianto che si era aperto senza ritegno. Ai singhiozzi, ormai inarrestabili, si erano aggiunti suoni di non facile identificazione ma che facevano intuire una grande mancanza d’ossigeno.

La signora Carla, donna pia e compassionevole iniziò a dare segni di fastidio. ” Che qualcuno la porti fuori, è uno spettacolo indecoroso”.

Purtroppo nessuno ebbe il coraggio di compiere quel gesto pietoso.

Allo scambio delle fedi nuziali la tragedia.

Guardando di sguincio il fratello che andava sposo a quella stronza senza patrimonio e senza titoli contaminando la casata, il pianto si fece dirotto, il prete si interruppe e la misera urlò contro il cielo parole che mai una ragazza di buona famiglia avrebbe potuto conoscere. Poi svenne.

Ancora oggi la cognata ha il terrore di alzare la cornetta del telefono.

Sa che c’è sempre un’anima candida che non rifiuta una telefonata ad una paziente rinchiusa che vuole parlare col fratello lontano.

AGGUATI

BOTERO DONNA CON SPECCHIOQuando hai esaurito le lacrime e dilapidato parte cospicua delle tue sostanze al telefono con tutti quelli che lo conoscono e che ti giurano di non sapere più niente di lui, non resta altro che l’appostamento.
Di solito si prende un’amica paziente e aggiornata al secondo sulla storia, la si va a prendere a casa con un’auto fattasi prestare da un’altra amica e non facilmente identificabile dallo spiato, in questi casi si consiglia un’amica con madre compiacente fornita di una Fiat Uno anonima, e si parte in direzione casa di lui.
Arrivati si controllano le luci di casa, quali sono quelle accese e quali le spente. Se si ha la fortuna di vedere la sagoma dell’apollo spostarsi da una camera all’altra, la serata è già un successo e si aspetta pazienti che esca.
Se ogni luce è spenta inizia invece il giro dei locali che di solito frequenta, senza dimenticarsi di passare prima a casa di quella lei, quella stronza svenevole e anche un po’ puttana, che da tempo gli ha messo gli occhi addosso e volesse il cielo che ne rimanesse abbagliata al punto da restare accecata e continuare la sua inutile esistenza accompagnata solo da un pastore tedesco addestrato.
Se sono ormai le 10 di sera e la smorfiosetta minigonnata sta uscendo di casa la si segue a debita distanza fino al locale dove la svampita ha deciso di trascorrere la serata. Si manda l’amica a fare un controllo dentro ” Sei stata anche nel bagno degli uomini per vedere se lui era la’?” e se il risultato è negativo si prosegue la missione facendo il giro dei bar, paninoteche, disco dance, after hours, birrerie, privè, e club dove tenti di entrare dalle cucine conoscendo il cuoco che si è preventivamente adescato e ammaliato.
Torni a casa alle 4 di notte, hai litigato con l’amica che si è rotta le palle tutta la sera ascoltando le tue lamentazioni e ti ha mandato a cagare quando le hai urlato in faccia ” Tu non mi capisci perché non hai un ragazzo” , ascolti l’ultimo messaggio che l’infame ti ha lasciato in segreteria “Il mio percorso spirituale è finito: prendo i voti” e solo allora inizi a valutare la possibilità di averlo perso per sempre.
Contro Dio non si hanno chance.

GROVIGLI

– Ma chi me lo fa fare?
– La tua coscienza, il tuo senso di responsabilità.
– Ma sono stanca.
– Non è ancora il tempo di riposare.
– Quando sarà il tempo?
– Quando avrai finito la tua missione.
– Io non so quale sia la mia missione.
– E’ questo che ti frega.
– Solo questo?
– Versati una anisette e taci.
– Parlare con te dà le sue soddisfazioni.

SGUARDI

Lowy – Ed è per questo che non mi guardi?
Kafka – Come?
Lowy – Quando parliamo, certe volte, abbassi gli occhi. Eviti di guardarmi.
Kafka – Non ci faccio neanche caso.
Lowy – Non credo.
Kafka – Penso che qualcun altro, attraverso gli occhi, mi legga dentro.
Lowy – Legga cosa?
Kafka – Le nuvole. Il filo che mi tiene appeso. E poi, be’, tutto il resto.
Lowy – Quale resto?
Kafka – La polvere, la cenere, il vento.

tratto da “La fine di Shavuoth” di Stefano Massini

INFERNO

88196e6899dee04daa4c25bed768172a.jpg

Se se ne fosse andato tacendo, adesso avrei il cuore in pace. Ma quell’ubriacone ha voluto farmi l’ultima cattiveria. Lui era speciale in questo. Non ho mai conosciuto un uomo più perfido di lui. Nei 40 anni passati a lavare i suoi pantaloni che puzzavano di piscio, perché quando si ubriacava se la faceva addosso, nel chiedere scusa a tutte le donne che importunava quando l’alcool scatenava i suoi istinti di bestia, a prendere botte perché non portavo a casa soldi per le sue bevute notturne quando lui non aveva più la forza di suonare nelle balere con l’orchestra di liscio “Delia e i suoi boccioli”, sono sempre stata sorretta dalla speranza che il mio uomo, l’uomo che non aveva voluto darmi un figlio, ma lo aveva concepito con un’infermiera che poi era morta di cancro allo stomaco senza nemmeno aspettare che fossi io ad augurarle una morte simile, quell’uomo che mi aveva portato a casa quel bambino orfano che aveva gli stessi occhi di suo padre e che io conoscevo bene perché, ragazza, mi avevano fatto innamorare, quell’uomo che mi aveva ucciso il canarino mettendolo nel mortaio e schiacciandolo col pestello, che mi portò dalla Veneria per una vacanza per poi correre a denunciarmi per abbandono del tetto coniugale,   proprio lui spirando sussurrò ” Ho fatto una quaterna al lotto”.
E’ stato un attimo dimenticare le umiliazioni e le sofferenze. “Dove, dove sono? ” gli ho urlato nell’orecchio.
Niente. Morto. Ed era brutto anche da morto.
Da allora ho scavato sotto il fico, ho fatto buchi nell’orto al punto che non cresce più neppure la gramigna, ho squartato il suo materasso, cercato nel barattolo della farina e in quello della mostarda, ho tranciato in due il serbatoio della sua motocicletta con la sega circolare.
Niente.
Poi ho preso l’urna delle sue ceneri e mentre ne versavo il contenuto dentro la tazza del cesso ho visto volare un pezzo di carta filigranata.
Potrei pensare ad un errore dell’inceneritore ma conoscendo mio marito sono sicura che se li è portati all’inferno.

MARIA

Fu solo il giorno dopo, quando andò in granaio per stendere i panni lavati con la cenere che lo vide dondolare. Non si era preoccupata non vedendolo rincasare la notte precedente, era abituata alle sue assenze su cui non indagava per non sentirsi ferita. Depose la cesta con le lenzuola pulite, si sedette su quella vecchia cassa che sapeva ancora di grappoli maturi e iniziò a parlagli:
“No, non riuscirei mai a tagliare quella corda che ti tiene sospeso e non sono neppure sicura di volerlo fare. Mi infastidiscono solo i tuoi occhi sbarrati, quegli occhi che ho amato tanto da dimenticarmi del figlio che non hai mai voluto darmi, per cui ti guardo i piedi che continuano a ciondolare per quello spiffero che non hai mai riparato. Mi accorgo ora che è più la tua non presenza ad avermi riempito la vita, il tuo non esserci, il tuo non fare. Non è stato per dispetto, è successo e basta. Ecco, la tua bocca adesso è proprio come lo è sempre stata, con le parole morte in gola strozzate dalla sofferenza di un mal di vivere che non ho saputo capire ma che ho intuito. Che buffo nome ti hanno imposto, adesso non riesco neppure a pronunciarlo sottovoce mentre mi viene naturale finalmente darti del tu. Non si può dare del voi ad un uomo che pende dalla trave di colmegna e mi perdonerai se non so come si chiama in italiano. Se solo fossi riuscita a parlarti come faccio adesso guardandoti i piedi, perché sarebbe stato troppo sfrontato fissare i tuoi occhi azzurri, forse, ecco, forse avresti rimandato il gesto e forse sono stata muta come sempre aiutandoti silenziosamente a portare a termine il tuo lavoro. Chi ero io, povera contadina ignorante, da impedirti di compierlo? Che parole avrei potuto usare se neppure riuscivo a venirti vicino nelle sere di gelo fuori e dentro il letto? Suoneranno due rintocchi per te che sei un uomo e quando sarà la mia ora verrò accompagnata da un unico rintocco per ricordarmi anche da morta che sono la metà di te che adesso mi penzoli davanti e non ti accorgi che, per la prima volta, non sto piangendo”.

Felice si impiccò a 34 anni Maria ne ha 98 e nessuna intenzione di morire

SCONTRO

Era talmente bello che quando passeggiavo con lui le ragazze, ma anche le donne mature, lo guardavano spudoratamente negli occhi e poi si giravano per guardargli il culo.
Lui non si è mai accorto della sua bellezza: non si specchiava nelle vetrine, non si vestiva in modo ricercato, non portava niente che fosse di moda.
Aveva il sorriso dei bambini sulle labbra rosse e con la loro curiosità composta osservava l’interesse che suscitava senza capirne il motivo. Era contagioso quando apriva la bocca in una risata fragorosa strizzando gli occhi limpidi che per un attimo annullavano la presenza del resto del mondo.
Aveva voglia di vivere lui, aveva voglia di giocare con la vita che sfidava continuamente con la sua rossa rattoppata che chiedeva tregua e un basso regime di giri. Non glieli ha mai concessi fino a quando se li prese da sola abbracciandolo stretto in una periferia urbana tornando a casa un lunedì sera deserto di lampioni eccetto quello che gli andò incontro.
Erano le 22.30

FERMATE

Non portando l’orologio ho imparato a regolarmi con la luce del sole. Ho messo a punto un orologio interno che mi permette di non essere schiava delle ore. Non ho mai tardato ad un appuntamento e mi piace essere puntuale. Non ho difficoltà a scegliere l’abito e il mio viso lo conosco talmente bene che lo potrei mascherare ad occhi chiusi. Sono diventata una specialista del fard al semaforo e del rossetto all’ultimo minuto mentre parcheggio. Anche quella volta fui puntuale. Pioveva e mi ero messa il cappello, sul tavolino del bar avevo appoggiato il tuo regalo: una cassetta da frutta in scala ridotta. Sul legno la scritta fragile e alto e dentro un cuore di pietra rossa. Guardavo le coppie che parlottavano a voce bassa sfiorandosi le guance rosse e annusando l’odore della pelle eccitata e aspettavo. Scommettevo tra me e me che impermeabile avresti messo, se avresti indossato gli occhiali che avevamo scelto insieme e se il tuo alito fresco mi sarebbe venuto incontro con un ciao o con uno scusami. Ho aspettato. Ho aspettato tanto da far impazzire il mio orologio biologico ma non ho pianto. Non si piange mai quando si è sole in una sala da the. Ci si alza si paga il conto ci si rimette il cappello e si esce. Fu allora che scoprii che ogni lacrima non versata alimenta un fiume dentro di me che non ha argini capaci di fermarlo ne’ dighe che ne devino il percorso e che quando decide di straripare si porta via tutto lasciandomi solo fango, i rami secchi e trote morte.
“ No, ti sbagli, non sto piangendo, sono le gocce della pioggia che mi rigano la faccia”