COMPAGNO

5cd02a805a51a0968cb725357a34b0b8.jpgScolta, compagno presidente, io sono un comunista vero, lo sai.

Non come quelli di adesso che hanno il cuore a sinistra e il portafoglio a destra.

Sai che non mi sono mai tirato indietro quando c’era da grigliare la salsiccia alla festa dell’Unità, sai che puntuale come la messa, ogni domenica andavo di casa in casa per distribuire copie dell’unità agli altri compagni e una copia la lasciavo anche a quel bar di democristiani reazionari che a onor del vero non l’hanno mai cestinata ma lasciata sul frigo dei gelati, sai che quando c’erano le elezioni ho sempre fatto il rappresentante di lista perché la sezione non ha mai ritenuto che potessi fare lo scrutatore e sai che non ho mai avuto paura di dire quello che penso.

Compagno presidente, adesso tu mi devi spiegare perché mi sta montando la rabbia quando ti vedo fare quei sorrisini di sufficienza quando prendo la parola, mi devi spiegare perché mi dici di fare dei sacrifici e tu ti prendi uno stipendio di euro 20.000 al mese, mi devi spiegare perché gli zingari hanno bisogno di un campo nomadi e lo vuoi mettere a casa mia, mi devi spiegare perché il partito ci ordina di aiutare gli extracomunitari e il marocchino che lavora con me non si fa vedere da tre mesi, prende paga e nessuno lo licenzia, mi devi spiegare perché tutte le antenne per far funzionare i vostri cellulari, visto che io ho ancora in casa un vecchio telefono grigio con la rotella, sono sempre posizionati in periferia dove ci sono le case popolari cioè dove abito io, mi devi spiegare perché giri con un’auto straniera da 300 milioni e vieni qua a dirci che dobbiamo credere nell’Italia comprando italiano, mi devi spiegare perché tu sei andato in Francia per farti operare e io aspetto tre mesi per avere una risonanza magnetica.

No, compagno presidente, non rispondermi adesso, aspetta.

Prenditi il tempo che vuoi ma attento alla risposta perchè quelle salsiccie non le griglio più alla festa dell’Unità ma te le ficco nel culo.

BORIA

f08df820fd52c5c82166584aa6fa8a61.jpg Io lo sapevo che non era la mattinata giusta, perché queste intuizioni ti sono chiare appena scendi dal letto e scivoli sulla pedana mandando l’osso sacro a sbattere contro la fiancata in finto legno massello che proteggerà anche il materasso ma ti condanna, per il resto della giornata, a stramaledire quella volta che decidesti di entrare da Pizzetti arredamenti.

 

Non mi devo far vincere dallo sconforto, il mio neuropsichiatra me lo ripete come un mantra. Ce la farò ad arrivare a tempo in ospedale per il deposito delle urine e il prelievo del sangue. Si, ce la farò.

 

Non mi può fermare, ne’ il cretino che attraversa la strada sulle strisce, ne’ le auto parcheggiate in terza fila davanti alle scuole.

 

 Raggiungo il policlinico. O meglio, lo immagino, vista la coda chilometrica per accedere al parcheggio. Al grido di  “Non possono vincere loro“ supero, strombazzando col clacson, le auto incolonnate e con una mossa degna di Schumacher arrivo davanti al gabbiotto del custode, ritiro il tagliando ed entro.

 

All’accettazione analisi, odore di urine, feci e altro materiale organico di non facile identificazione mischiato a  sudore, aglio, naftalina e puzza di vecchio, di morte.

 

“Non possono vincere loro”. Passo davanti a tutti fregandomene delle donne incinte, degli handicappati, dei vecchi in carrozzina di quelli che si sono alzati alle quattro per essere i primi a fare la coda.

 

Consegno le mie urine e ricevo il tagliando per il prelievo.

 

Altra coda.

 

Litigo con una donna che probabilmente crede di essere in una balera visto il trucco che le cola dagli occhi per il caldo,  mi faccio largo fingendo un attacco di panico e ammonendo un pensionato “tanto tu non fai un cazzo tutto il giorno, puoi aspettare”.

 

Entro arrotolo la manica della camicia e mi prelevano tre flaconi di sangue.

 

Esco torno casa e mi piazzo davanti alla tv.

 

Sono disoccupato da cinque anni.

 

Ripensandoci potevo prendermela comoda.

 

Non avevo poi tutta sta fretta di sapere che un cancro mi divora il cervello.

 

INFERNO

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Se se ne fosse andato tacendo, adesso avrei il cuore in pace. Ma quell’ubriacone ha voluto farmi l’ultima cattiveria. Lui era speciale in questo. Non ho mai conosciuto un uomo più perfido di lui. Nei 40 anni passati a lavare i suoi pantaloni che puzzavano di piscio, perché quando si ubriacava se la faceva addosso, nel chiedere scusa a tutte le donne che importunava quando l’alcool scatenava i suoi istinti di bestia, a prendere botte perché non portavo a casa soldi per le sue bevute notturne quando lui non aveva più la forza di suonare nelle balere con l’orchestra di liscio “Delia e i suoi boccioli”, sono sempre stata sorretta dalla speranza che il mio uomo, l’uomo che non aveva voluto darmi un figlio, ma lo aveva concepito con un’infermiera che poi era morta di cancro allo stomaco senza nemmeno aspettare che fossi io ad augurarle una morte simile, quell’uomo che mi aveva portato a casa quel bambino orfano che aveva gli stessi occhi di suo padre e che io conoscevo bene perché, ragazza, mi avevano fatto innamorare, quell’uomo che mi aveva ucciso il canarino mettendolo nel mortaio e schiacciandolo col pestello, che mi portò dalla Veneria per una vacanza per poi correre a denunciarmi per abbandono del tetto coniugale,   proprio lui spirando sussurrò ” Ho fatto una quaterna al lotto”.
E’ stato un attimo dimenticare le umiliazioni e le sofferenze. “Dove, dove sono? ” gli ho urlato nell’orecchio.
Niente. Morto. Ed era brutto anche da morto.
Da allora ho scavato sotto il fico, ho fatto buchi nell’orto al punto che non cresce più neppure la gramigna, ho squartato il suo materasso, cercato nel barattolo della farina e in quello della mostarda, ho tranciato in due il serbatoio della sua motocicletta con la sega circolare.
Niente.
Poi ho preso l’urna delle sue ceneri e mentre ne versavo il contenuto dentro la tazza del cesso ho visto volare un pezzo di carta filigranata.
Potrei pensare ad un errore dell’inceneritore ma conoscendo mio marito sono sicura che se li è portati all’inferno.