BRIDGE

Ne ho avuto abbastanza

Sono stufa di vedere e di toccare entrambi i lati delle cose

Stufa di essere il maledetto ponte per tutti

Nessuno può parlare con nessuno senza di me, giusto?

Spiego mia madre a mio padre,

mio padre alla mia sorellina,

la mia sorellina a mio fratello,

mio fratello alle femministe bianche,

le femministe bianche alla gente della Chiesa Nera

la gente della chiesa nera agli ex-hippies,

gli ex hippies ai separatisti neri,

i separatisti neri agli artisti,

gli artisti ai genitori dei miei amici

Poi

Sono riuscita a spiegare me stessa a tutti

Io

faccio più traduzioni del Gawdamn all’ ONU

Lasciate perdere

Sono stanca di tutto questo

Sono stanca di riempire le vostre lacune

Sono stanca di essere la vostra assicurazione contro l’isolamento dei limiti che vi siete imposti

Stanca di fare la pazza durante le vostre cene in vacanza

Stanca di essere quella in più ai vostri brunch domenicali

Stanca di essere l’unica amica nera di 34 persone singles bianche

Trovate un altro collegamento con il resto del mondo

Trovate qualcosa d’altro per farvi legittimare

Trovate qualche altro modo per essere politici e alla moda

Io non sarò il ponte alla vostra femminilità

della vostra virilità

della vostra umanità

Sono stanca di ricordarvi di non chiudervi fuori troppo strette per troppo tempo

Sono stufa di mediare con il vostro lato peggiore a nome dei vostri lati migliori

Io sono stufa di dovervi ricordare di respirare prima di soffocare nella vostra lucida follia

Lascia perdere 

Adattati o annega

Cresci o muori

Il ponte che devo essere è il ponte verso la mia forza

Mediare le mie debolezze

Io voglio essere il ponte verso il nulla

ma devo essere davvero me stessa 

e allora io sarò utile

 

 

 “The Bridge Poem” di Kate Rushin

ROCK

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Ero una donna felice. Non perché avevo una bella casa arredata dall’architetto di grido, il suv per andare a prendere i bambini, due, un maschio e una femmina, a scuola, non perché davo feste e ricevimenti memorabili e non voglio ricordare  le mie cene di Natale con gli amici: ne parlano ancora.

Ero una donna con una tata per il bimbi, una signora che veniva a stirare le camice di mio marito che dovevano essere impeccabili, una signora che veniva il venerdì per le pulizie, un giardiniere veneto preciso ed ordinato che mi faceva riconciliare col mondo.

Le mie giornate erano piene. Correvo dalla boutique in centro allo spaccio aziendale esclusivissimo di scarpe, dal coiffeur al centro benessere.

Giuro che la sera ero distrutta.

E quando è capitato il fattaccio, quando gli amici sono scomparsi, i domestici licenziati e  i bambini frequantavano la scuola pubblica salendo sullo scuolabus coi figli della mia ex cameriera, non mi sono fatta prendere dalla disperazione. Mi sono rimboccata le maniche, venduto la villa, messo all’asta i quadri, ho affittato un monolocale più servizi e ho trovato lavoro come beccamorto.

Io reggo tutto, non conosco la depressione e nessuno mi ha mai visto disperata.

Ho solo un piccolo cedimento quando rientro in casa dopo la mia giornata di lavoro e me lo ritrovo in poltrona, sporco, in canottiera e una birra in mano davanti alla tv mentre guarda “pomeriggio sul 5” che il mio stomaco si ribella. In anno è aumentato 15 chili e di quel megadirigente di multinazionale inafferrabile, metodicamente impegnato o in viaggi d’affari o in lunghissime riunioni, stento a riconoscerne la fisionomia.

Ma quel che è peggio mi sta sempre attaccato al culo e da solo non riesce a decidere neppure che braghe mettersi se non gliele preparo sul letto.

Quando mi lagnavo con lui perché non era mai a casa non avevo ancora capito quanto ero fortunata.

POST IT

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” Sono stanca. Me ne vado”

Mi lascia con questo post-it appiccicato al frigo.

Essenziale.

Ce n’erano di modi per lasciarmi. Non dico parlamene direttamente, lo so che non ami le chiacchiere inutili, che ti stanchi di ripetere le stesse cose che sappiamo da anni, ma almeno scrivimi una lettera e lasciala sul tavolo della cucina, mandami una mail, un sms, un fax, un mazzo di fiori con biglietto di addio allegato. No. Lei deve essere sintetica anche negli abbandoni.

A guardarla da un certo punto di vista la casa senza di lei ha un’altra dimensione. Sarà l’armadio vuoto, i cassetti del comò liberati dai suoi reggiseni e la possibilità di avere finalmente le mie mutande nel primo cassetto, le bomboniere ricevute scomparse dalla libreria. Nel complesso mi sembra tutto più luminoso, più largo.

Che fosse stanca potevo immaginarlo, anche io sono stanco: il lavoro, le incazzaure, il mutuo, la macchina in seconda fila, il sale che manca quando butti la pasta. Ma da lì ad andarmene ce ne passa. E poi andare dove? E lei dove cazzo poteva essere andata? Dalla mamma? Dall’amica? Dalla cugina, quella rossa di sinistra che parlava soltanto citando slogan e frasi lapidarie? No, non è da lei. Non è una donna che va a piangere in giro. Piuttosto di ammettere un fallimento racconta una barzelletta.

Questa è la donna che conosco io.

Ma quanto la conosco?

Quante volte mi sono chiesto a cosa pensava mentre parlavo di nanotecnologie?

Come erano le sue serate quando io non c’ero?

Cosa toccavano le sue mani quando toglieva gli anelli?

Non ricordo neppure se ultimamente si era tagliata i capelli o li aveva soltanto raccolti, non so che taglia di abiti avesse, né se avesse allergie.

Non ho una foto sua e delle sue labbra non ricordo il sapore.

So che rientravo e lei era li’, la cena pronta, la mia posta aperta e lasciata sul tavolo per il controllo, il mio vestito a giacca per il giorno dopo appeso alla gruccia, le scarpe lucidate.

E’ uno scherzo.

Lei non può essersene andata, non può avermi fatto questo.

Aveva tutto.

Era felice. Stamattina mi ha sorriso chiudendo la porta di casa. Forse erano i suoi occhi che avevano smesso di sorridermi. Da quanto tempo non la guardo dentro gli occhi?

E poi, quella che conosco io anche quando se ne va, lascia un comando da eseguire.

Giro il post it.

“Pulisci la lettiera”

Non si è scordata.

Se n’è andata davvero.

MALAMORE

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Iniziò con una lacrima silenziosa che le scivolò sul naso fino a raggiungere la punta per poi cadere sul libretto delle orazioni.

Nessuno si preoccupò: era normale esternare l’emozione, date le circostanze.

I singhiozzi iniziarono subito dopo la seconda lettura. Erano sommessi, quasi impercettibili.

Da dietro qualcuno le allungò un fazzoletto. Se lo vide apparire davanti e senza neppure girare il capo per ringraziare, lo afferrò con rabbia e se lo portò al naso.

Sentì un braccio cingerle le spalle e con stizza se lo scollò di dosso.

All’elevazione anche quelli dell’altra navata sentivano distintamente quel pianto che si era aperto senza ritegno. Ai singhiozzi, ormai inarrestabili, si erano aggiunti suoni di non facile identificazione ma che facevano intuire una grande mancanza d’ossigeno.

La signora Carla, donna pia e compassionevole iniziò a dare segni di fastidio. ” Che qualcuno la porti fuori, è uno spettacolo indecoroso”.

Purtroppo nessuno ebbe il coraggio di compiere quel gesto pietoso.

Allo scambio delle fedi nuziali la tragedia.

Guardando di sguincio il fratello che andava sposo a quella stronza senza patrimonio e senza titoli contaminando la casata, il pianto si fece dirotto, il prete si interruppe e la misera urlò contro il cielo parole che mai una ragazza di buona famiglia avrebbe potuto conoscere. Poi svenne.

Ancora oggi la cognata ha il terrore di alzare la cornetta del telefono.

Sa che c’è sempre un’anima candida che non rifiuta una telefonata ad una paziente rinchiusa che vuole parlare col fratello lontano.

RITRATTO

BOTERO NUDO CON SEDIA

E’ instabile come il tempo a primavera. Ha giornate cariche di pioggia che improvvisamente scendono a scrosci invadendo la vita degli altri e giornate luminose trasportate da un vento leggero che le brilla negli occhi.
E’ fragile come i vasetti di porcellana che colleziona piccoli gioielli posti su un ripiano che non spolvera mai perché non può essere lei a togliere la polvere del tempo dagli oggetti così come non riesce a farlo alle persone nei suoi ricordi. E la sua mente è piena di ricordi impolverati da cui spuntano, a tratti, dita che le scorrono sul corpo o labbra grigie che le baciano il collo teso.
Caparbiamente, come uno stambecco che non rinuncia a scalare una vetta per cercare cibo solo perché c’è una bufera di neve, deve raggiungere la cima per guardare il mondo, sola, senza rumori intorno. Allontanarsi è una necessità per vincere la paura della solitudine che però adora proprio come chi riesce ad innamorarsi del suo carnefice.
E’ inzuppata di dolcezza come un biscotto e come un biscotto si scioglie ogni volta che una voce, quella voce, la cerca, la vuole, la chiama, la imita, la porta verso altri percorsi della mente in cui incespica, si ferisce, senza rinunciare a strappare le ragnatele che le impediscono la nuova visuale che le appare davanti.
Deve aver amato molto e deve essere stata amata altrettanto in quel gioco di attivo-passivo che gli altri definiscono amore e che lei non ama definire ma vivere con la stessa passione e ogni volta dimenticando le lacrime precedenti, le scenate, i piatti rotti, le fughe e le riconciliazioni.
Ha fascino e non si svende conoscendo il suo valore.
E’ una donna. E’ diversa. E’ unica.
Irriproducibile.