POST IT

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” Sono stanca. Me ne vado”

Mi lascia con questo post-it appiccicato al frigo.

Essenziale.

Ce n’erano di modi per lasciarmi. Non dico parlamene direttamente, lo so che non ami le chiacchiere inutili, che ti stanchi di ripetere le stesse cose che sappiamo da anni, ma almeno scrivimi una lettera e lasciala sul tavolo della cucina, mandami una mail, un sms, un fax, un mazzo di fiori con biglietto di addio allegato. No. Lei deve essere sintetica anche negli abbandoni.

A guardarla da un certo punto di vista la casa senza di lei ha un’altra dimensione. Sarà l’armadio vuoto, i cassetti del comò liberati dai suoi reggiseni e la possibilità di avere finalmente le mie mutande nel primo cassetto, le bomboniere ricevute scomparse dalla libreria. Nel complesso mi sembra tutto più luminoso, più largo.

Che fosse stanca potevo immaginarlo, anche io sono stanco: il lavoro, le incazzaure, il mutuo, la macchina in seconda fila, il sale che manca quando butti la pasta. Ma da lì ad andarmene ce ne passa. E poi andare dove? E lei dove cazzo poteva essere andata? Dalla mamma? Dall’amica? Dalla cugina, quella rossa di sinistra che parlava soltanto citando slogan e frasi lapidarie? No, non è da lei. Non è una donna che va a piangere in giro. Piuttosto di ammettere un fallimento racconta una barzelletta.

Questa è la donna che conosco io.

Ma quanto la conosco?

Quante volte mi sono chiesto a cosa pensava mentre parlavo di nanotecnologie?

Come erano le sue serate quando io non c’ero?

Cosa toccavano le sue mani quando toglieva gli anelli?

Non ricordo neppure se ultimamente si era tagliata i capelli o li aveva soltanto raccolti, non so che taglia di abiti avesse, né se avesse allergie.

Non ho una foto sua e delle sue labbra non ricordo il sapore.

So che rientravo e lei era li’, la cena pronta, la mia posta aperta e lasciata sul tavolo per il controllo, il mio vestito a giacca per il giorno dopo appeso alla gruccia, le scarpe lucidate.

E’ uno scherzo.

Lei non può essersene andata, non può avermi fatto questo.

Aveva tutto.

Era felice. Stamattina mi ha sorriso chiudendo la porta di casa. Forse erano i suoi occhi che avevano smesso di sorridermi. Da quanto tempo non la guardo dentro gli occhi?

E poi, quella che conosco io anche quando se ne va, lascia un comando da eseguire.

Giro il post it.

“Pulisci la lettiera”

Non si è scordata.

Se n’è andata davvero.

GROPPO

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Ci sono dei magoni che non se ne vanno.

Come un tampone ficcato nella gola.

Ci provi, a farli uscire. Urlando per poi accorgerti che non ne sei più capace.

Allora ti metti d’impegno a pensare ad altro.

Per 10 minuti.

” Oddio, chiedo solo 10 minuti di tregua dal dolore, chiedo troppo? “

Si, evidentemente chiedo troppo perché rispunta e gli occhi iniziano a brillare le labbra a serrarsi e spuntano quelle due rughe tra le sopraciglia quelle dello sguardo severo.

Perché non si deve piangere.

Per quale stupido motivo non si deve piangere?

” Perché sei grande, matura, perché riesci ad elaborare qualsiasi dolore, datti tempo”.

Balle.

Il tempo non fa dimenticare, il tempo ingigantisce, il tempo copre con una polvere troppo sottile per non volare appena si sbattono le ciglia, il tempo io non ce l’ho e non so dove comprarlo. I soldi non sono un problema, li ho, li posso trovare, me li presterebbero ma non servono.

Serve l’accettazione.

Serve una resa senza condizioni e non sono pronta. No, Dio, non sono pronta. Per cui adesso tu aspetti. Aspetti e mi aiuti a superare gli scogli perchè il mare lo voglio vedere, voglio vedere il mare in tempesta, quello che mi fa paura e da cui scappo rintanandomi sotto la barca, voglio riuscire a superare l’onda buona, voglio sporcarmi la bocca di sale, voglio sentire che vivo ancora per poterti sorridere mentre ti dico ” Ce l’abbiamo fatta”.