ROCK

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Ero una donna felice. Non perché avevo una bella casa arredata dall’architetto di grido, il suv per andare a prendere i bambini, due, un maschio e una femmina, a scuola, non perché davo feste e ricevimenti memorabili e non voglio ricordare  le mie cene di Natale con gli amici: ne parlano ancora.

Ero una donna con una tata per il bimbi, una signora che veniva a stirare le camice di mio marito che dovevano essere impeccabili, una signora che veniva il venerdì per le pulizie, un giardiniere veneto preciso ed ordinato che mi faceva riconciliare col mondo.

Le mie giornate erano piene. Correvo dalla boutique in centro allo spaccio aziendale esclusivissimo di scarpe, dal coiffeur al centro benessere.

Giuro che la sera ero distrutta.

E quando è capitato il fattaccio, quando gli amici sono scomparsi, i domestici licenziati e  i bambini frequantavano la scuola pubblica salendo sullo scuolabus coi figli della mia ex cameriera, non mi sono fatta prendere dalla disperazione. Mi sono rimboccata le maniche, venduto la villa, messo all’asta i quadri, ho affittato un monolocale più servizi e ho trovato lavoro come beccamorto.

Io reggo tutto, non conosco la depressione e nessuno mi ha mai visto disperata.

Ho solo un piccolo cedimento quando rientro in casa dopo la mia giornata di lavoro e me lo ritrovo in poltrona, sporco, in canottiera e una birra in mano davanti alla tv mentre guarda “pomeriggio sul 5” che il mio stomaco si ribella. In anno è aumentato 15 chili e di quel megadirigente di multinazionale inafferrabile, metodicamente impegnato o in viaggi d’affari o in lunghissime riunioni, stento a riconoscerne la fisionomia.

Ma quel che è peggio mi sta sempre attaccato al culo e da solo non riesce a decidere neppure che braghe mettersi se non gliele preparo sul letto.

Quando mi lagnavo con lui perché non era mai a casa non avevo ancora capito quanto ero fortunata.