ESASPERAZIONE

 

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Sono stanca.

Stanca.

Stanca di leccare lacrime, stanca di accompagnare sotto braccio la sofferenza, stanca di consolare occhi perduti, stanca di fare il giullare per far respire un’aria pulita, stanca di caricarmi di dolore.

E oggi, tu non c’eri. Oggi sei rientrato nella tua tana sudicia di male cercando un odore, un oggetto, un respiro.

Non ci poteva essere, lo sapevi e allora di nuovo lo stordimento necessario, la fatica di respirare, la sconfitta dell’impotenza. Che poi ti vengano a parlare di Dio, di resurrezione, di speranza di fai le cose giuste. Chi cazzo stabilisce il giusto? Non quella pletora di cantori sudati, ne’la triade di mercanti sconfitti dal tempo.

La vuoi tu la mia sorte? Tu che pontifichi, la vuoi vivere tu la mia vita? Dov’eri mentre mi spezzano le ossa a randellate, dov’eri quando quella notte non riuscivo a guidare perché i miei occhi erano pieni di lacrime? Perché non mi hai preso le mani lerce? Puzzavo troppo di vomito e urina?  E allora, adesso, taci. Taci e non parlarmi più.

Ho chiuso il portone del mondo. Lascia che il toro mi incorni, non farà più male che non averti tra le braccia.

La vostra preoccupazione arriverà fino a mezzogiorno poi sarete di nuovo felici di non avermi partorito.

SLIGHT

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Se mi confronto con te, perdo.

Per il tuo modo di allargare le braccia quando ti faccio richieste impossibili da esaudire, quasi sdegnato per la mia insistenza. Per i tuoi baci leggeri accompagnati dal lieve tocco della tua mano sui miei capelli e la serietà del tuo viso che si confonde coi tuoi pensieri disordinati.

Non ricordo il tempo in cui ho iniziato a cercare di capirti senza mai vincere. Tu chiuso nel tuo mondo io distratta dal mondo.

Ci furono incontri sbagliati, persone sgradevoli, tanto amore malato e poi rifiuti, urla, rimozioni, pianti, i miei mai i tuoi, esoneri e battaglie.

Crescere è un mestiere in cui ho cercato di applicarmi incassando le sconfitte, anche quelle grosse dal magone in gola, senza mai dimenticare i particolari del dolore, quello stesso dolore che potevo solo immaginare anche tu provassi senza mai poterlo urlare, sempre contenuto, sempre inespugnabile, sempre nell’ombra per non disturbare la voglia di esuberanza che mi faceva scoppiare in una risata contagiosa cui tu restavi immune, come se il sorriso tu lo avessi smarrito quel giorno in cui mi dicesti “ Adesso basta, so dov’è il mio male, è qui” e indicasti il punto con l’indice.

Ora continuiamo a volare in direzioni opposte ma c’è un momento, ogni giorno, in cui in nostri occhi s’incontrano ed io capisco di aver perso da sempre e vorrei alzare bandiera bianca e in quello stesso istante tu accosti la tua mano ai miei capelli e li sfiori appena garantendomi l’onore delle armi. “Ma, non oggi, oggi non è ancora il tempo” E lo dici senza usare le parole, senza sorridere. Basta l’abbassare delle tue palpebre.

 

AAAVENDESI

 

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Cerchi sempre di cancellare i ricordi e solo quando ti rendi conto che l’operazione è impraticabile decidi di venderli. Così, oggi,  vendo il ricordo di un amore.

Ne vendo i baci violenti sulla mia pelle tesa e anche quel modo di afferrarmi i capelli quasi volesse entrare nella mia testa. In realtà c’era da sempre, senza rendersene conto. Era distratto da me e dalla mia voce. Dovevo pur salvaguardarmi da lui e dalla perenne voglia di scoparmelo.

Ora non fa più male. L’ho disinfettato con le lacrime versate durante un tempo fotografato per caso da una polaroid. Ma torna noioso nelle giornate di bassa pressione ad immalinconire le ore dei passeri esausti. Ho sempre voluto sentirmi libera e lui ha saputo limare lentamente la catena. Forse non voleva, forse l’ho costretto, forse sapeva che avevo bisogno di cielo. Forse sapeva che non mi divertivo più. Forse. I gesti valgono molto più delle parole e io, si sa, ho sempre parlato troppo.

Il suo odore rimasto incastrato in un maglione di cotone giallo è compreso nel prezzo del ricordo.

Base d’asta 50 centesimi.

 

 

SCHIETTEZZA

 

 

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Successe all’età di cinque anni. Rubai i biscotti appena sfornati per darli ad un cane che vedevo ogni mattina all’angolo dell’asilo. Il cane morì. Come mio padre che la stessa mattina li aveva mangiati a colazione. Mia madre finì in galera e io fui affidata a mia zia Nives che non si è mai capacitata del perché una bambina di cinque anni non avesse addentato quei biscotti. Più lei mi interrogava più io urlavo la mia verità più lei non mi credeva. Capii allora che le verità urlate non vengono mai credute, così inizia a giocarci.

A scuola copiavo metodicamente e quando ritiravo il compito e vedevo il 10 con lode confessavo che era stato copiato di sana pianta. La prof scoppiava in una sonora risata e alle mie compagne lodava la mia umiltà per non far sfigurare i loro compiti di latino. La verità è che avevo conosciuto il marito della prof. di latino, ci andavo a letto in cambio della traduzione della versione che sua moglie ci avrebbe dato l’indomani.

Sul lavoro feci carriera rapidamente utilizzando lo stesso metodo. Dicevo in faccia a chi non lavorava che era un lavativo, glielo urlavo stando attenta che proprio in quel momento passasse un responsabile.

Non ho mai utilizzato il gioco della seduzione. Se volevo andare a letto con un uomo glielo dicevo schietto in faccia, senza problemi e se mi rifiutava, lo raccontavo a tutti mettendolo in ridicolo.

In fin dei conti dicevo solo la verità e la verità non fa mai male a nessuno.

Balle.

Fa molto male. Adesso lo so.

Il primario mi ha appena detto che ho un cancro nelle ossa.

E lui, come me, è malato di verità e non sa mentire.

 


 

PROPEDEUTICA

 

 

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La colpa è di mio padre che mi insegnò ad amare il giro d’Italia e la boxe. I pomeriggi noiosi dei compiti improvvisamente si animavano di colori, di strade affollate, di striscioni colorati che invadevano la sala accendendo la tv. E ancora adesso a primavera, quando parte il Giro, studio il percorso per valutare la fatica delle scalate e gli arrivi in velocità illudendomi che ci sia ancora qualcosa di pulito nella bicicletta Ma la passione vera, incomprensibile, imprevista per la boxe, beh quella non la capisco. La seguiva alla tv mentre per me era ora di dormire. Mi arrivava ogni tanto un “acsè”, un “così,” che si portava dietro la soddisfazione e l’orgoglio italiano. Ma ne parlava a tavola tra il disinteresse generale. Ma io ascoltavo. Lui, che conobbe Primo Carnera e le sue mani grandi rimanendo affascinato dai racconti del vecchio pugile, mi impartì i primi rudimenti della nobile arte, mi fece capire che quei colpetti che parevano carezze erano dolorosi come lo schiaffo della mamma quella volta che tornai a casa dalla fiera con le tasche piene di rotelle alla liquirizia, che si è bravi quando si colpisce ma un bravo incassatore vale 1000 picchiatori e che non ci si deve arrendere mai aspettando pazienti il suono della campana perché solo allora puoi abbassare la guardia e lasciare che ti asciughino il viso.

 

 

 

 

TIA

 

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Erano i suoi occhi appesi o la sua bocca immobile?

A volte mi confondo.

Io vorrei crederle quando mi dice che l’altro non c’è. Ma io sono sicura di averlo partorito. Li ho portati dentro alla pancia, li ho sentiti urlare quando me li hanno strappati. Ne ho perduto uno. Ma non è colpa mia. Me l’hanno sottratto con l’inganno. Devono essere stati gli zingari. Gli zingari rubano i bambini. Mia nonna me lo ripeteva fino a ossessionarmi “ Attenta agli zingari “.Perché nessuno mi crede e continuano a riempirmi di pastiglie? Stupidi medici.Dovete ritrovare l’altro non riempirmi di pillole che mi calpestano il dolore. Tanto non se ne va. Resta sopito pronto ad aggredirmi appena chiudete la porta.  Questa volta non ve lo dico che stanotte ho sentito di nuovo quella voce chiamarmi. Ho imparato. Taccio e fingo. E tutti sono pieni di premure. Mi osservano ma non è questo che mi infastidisce. E’ il loro sorriso. Così pietoso, comprensivo, ipocrita. A volte sorrido anche io ed è un passaparola “ha sorriso, ha sorriso”. Magari è solo, al buio.

Avrà freddo il mio bambino. E questi mi portano l’altro da allattare. Non ho tette per lui. Non sono neppure sicura che questa creatura sia mia. Non ha il mio odore, non ha nessun odore. E’ rigida e se le alzo il braccino mi resta in mano. Zitta e chiudi gli occhi. L’infermiera. Ha l’odore del mio bambino. Era semplice capirlo. Non sarà difficile. Come estrarle un dente.

8MARZO

 

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“So che tu mi seguiresti ovunque. In un campo di margherite  come su una piattaforma petrolifera nell’oceano indiano o per 4 ore seduta sulla poltrona di un teatro ascoltando Bernanos per poi riprendere la marcia verso volti sconosciuti e bocche piene di sorrisi stucchevoli o in ogni improbabile impresa in cui mi ficco ad occhi chiusi e a braccia spalancate, senza protezione se non quella di sapere che tu sei vicino a me anche quando cerco di sparare fuochi artificiali in giardino dimenticando la miccia. Mi seguiresti in ogni vita che mi invento travestendoti con me e ritoccandomi il trucco perché sia tutto perfetto agli occhi del mondo. Ma stasera ti chiedo per la prima volta di seguirmi davanti ad un altare e di lasciare che ti metta l’anello d’oro al dito giurandoti quell’amore per sempre per sempre per sempre, che mi hai fatto scoprire. Io, adesso, so che ti amo. Io voglio sposarti. Sposami”.

Questo avrei voluto sentirti dire, questo probabilmente avresti detto un giorno qualsiasi, fermandoti il tempo necessario per ascoltare il mio “si”.

Dio non ti ha concesso quel momento. Ti ha voluto accanto a se, forse aveva anche lui bisogno di te e davanti a lui, ancora una volta, mi faccio da parte con una soddisfazione: la tua mano, mentre ti porta via, la sto stringendo io.

CONSEGUENZE

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Oggi compio 18 anni ma non ci sarà nessuna festa.

L’unico regalo sarà quello di mia madre: una maglietta comprata nel negozio Benetton 012 di via Santo Spirito.

Il mio corpo ha smesso di crescere il 23 aprile di quattro anni fa. Il mio viso non è invecchiato, solo i miei capelli sono cambiati, sono diventati bianchi.

E ho smesso di camminare.

Dicono che passerà ma per ora mi muovo con la sedia a rotelle.

Entrò come una furia. Ricordo soltanto che aveva il braccio steso contro di noi e la mano impugnava una pistola. Io vedevo solo la canna ma le urla, si, quelle le sentivo. Imprecava contro suo marito e usava parole terribili che mi rintronavano nella testa mentre cercavo di coprirmi con il lenzuolo ma lui lo tirava dalla sua parte perché anche lui voleva coprirsi e trovai ridicolo quel tira e molla di stoffa che finiva  lasciandoci entrambi nudi. Poi ha sparato. Piangeva mentre sparava e la mano le tremava, forse per quello non l’ha centrato al primo colpo ma solo al terzo. Io avevo smesso di urlare da un pezzo, me ne stavo con gli occhi sbarrati guardando il buco della canna della pistola. Poi qualcosa mi colpì la faccia. Erano schizzi di sangue. Volevo urlare ma non ne ero più capace così mi girai verso Gregorio per chiedergli aiuto e incrociai i suoi occhi sbarrati mentre un rivolo di sangue gli scendeva lento dalla testa. Poi quella donna si mise a piangere e io mi alzai, raccolsi le mie mutande, il vestito, mi misi le scarpe e presi la cartella. La pulii da altri schizzi che ci erano finiti sopra. Non potevo rientrare a casa in quelle condizioni, mia madre si sarebbe accorta che qualcosa non funzionava e io non avrei saputo rispondere a nessuna domanda se non che amavo Gregorio da sempre, da quando entrando in classe mi allungò l’astuccio che era caduto sfiorandomi la mano.  “ Anche io ho un figlio che guarda Dragon Ball, andremo d’accordo”.

CRASI

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C’era una corriera stipata di uomini.

Lui ne aveva 15, le gambe secche e i capelli col taglio all’umberta e con lui c’era Chicco sempre affamato di donne e di pane, che poi era la stessa cosa. E poi ancora Franchino e Romano il muto e al “Nadar” per quel modo strambo che aveva di camminare

C’era una corriera stipata di uomini stanchi che voleva soltanto tornare a casa.

Poi  c’era il sole quella mattina quando decisero di andare dall’Imelda la casara per convincerla a  dare a loro le croste del grana. Il prevosto avrebbe potuto aspettare il giorno seguente, la loro pancia no. Chicco l’avrebbe abbracciata sperando che quel donnone avesse ceduto alle lusinghe e si fosse lasciata baciare, lui avrebbe suonato l’armonica per invogliarla alla danza e per creare l’atmosfera e Franchino, il magro, con gesto abile e repentino avrebbe approfittato della situazione per sottrarle il formaggio.

C’era una corriera stipata di uomini stanchi che voleva solo attraversare il Po.

 

Iniziò a cantare “Suona solo per me,o violino tzigano. Forse pensi anche tu a un amore, laggiù sotto un cielo lontan….” E subito gli altri gli andarono dietro  mimando lo strumento e le fattezze di una donna immaginata. Fu allora che il suo sguardo incontrò quello di un uomo seduto dietro il finestrino di una corriera, il bavero alzato, il freddo negli occhi. La strofa gli rimase impigliata in gola.

 

C’era una corriera stipata di uomini stanchi che voleva solo dimenticare.

 

Non  aveva più quindici anni  quando riprese la strada e non gli interessava più la crosta del formaggio. Solo Chicco capì, ma Chicco era il figlio di un comunista.

 

C’è una corriera sepolta da qualche parte stipata di uomini morti.

 

 

DEBACLE

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Sono 49 giorni che non ho notizie di te.

Quell’ultima volta, al telefono, sentivo l’odore del tuo dopobarba mischiato ai nostri lunghi silenzi.

“Mangi?”

“Si”

 

 

“Per il resto?”

“Bene”

 

 

“ Allora ti aspetto”

“Si”

 

 

“Io…”

“Cosa?”

 

 

“Niente. Ciao”

“Ciao”

 

 

Era finita già con quella telefonata: avevo detto basta.

Poi, quel giorno ho chiuso la porta di casa tua e me ne ero andata senza voltarmi una sola volta. 

Mi sono sentita forte quel giorno e non poteva essere diversamente. La notte prima mi avevi scopato senza gemiti, senza dire una parola. Il tuo fiato su di me, i colpi meccanici, persino le tue mani erano stanche di percorrere il mio corpo. E’ stato allora che ho deciso. Quello sarebbe stato il mio ultimo finto orgasmo.

Non mi hai cercata per mesi. Normale, tu sai vivere senza di me.

Sapevi anche tu che la nostra storia non era una storia, che ero io ad amare per entrambi, che togliendomi di torno sarebbe stato riacquistare ossigeno. Ti ho evitato anche le discussioni, le ripicche, il rinfacciare le cose, i pianti e le scene madri.

E adesso un sms. “ Leggi Camus”.

No, non lo leggo Camus perché l’ho già letto ma tu non puoi saperlo perché non mi hai mai chiesto niente, non ti sei mai degnato di interessarti alla mia vita fuori da quel letto. Leggilo tu  Camus ma non limitarti a leggerlo, cerca di capire cosa intendesse per legami tra esseri umani, quei legami così forti che arrivano a spezzare il legame stesso. Non solo hai ucciso il mio stupido amore ma poi lo hai divorato imbrattandoti la camicia di sangue soddisfatto del tuo massacro.

Adesso puoi continuare lo stillicidio degli sms, dei due squilli come segnale, del passaparola con gli amici comuni, del “glielo faccio sapere indirettamente”.

Sono ancora pronta a subire la tua violenza perché ho perso la stima di me.

Mi sono persa completamente nell’ombelico di un uomo che aveva bisogno di umiliarmi per sentirsi importante, maschio, raro.

Se è questo che ti serve per esistere finisci lo sterminio.
Entro volentieri nella camera a gas se tu sei felice.