INFERNO

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Se se ne fosse andato tacendo, adesso avrei il cuore in pace. Ma quell’ubriacone ha voluto farmi l’ultima cattiveria. Lui era speciale in questo. Non ho mai conosciuto un uomo più perfido di lui. Nei 40 anni passati a lavare i suoi pantaloni che puzzavano di piscio, perché quando si ubriacava se la faceva addosso, nel chiedere scusa a tutte le donne che importunava quando l’alcool scatenava i suoi istinti di bestia, a prendere botte perché non portavo a casa soldi per le sue bevute notturne quando lui non aveva più la forza di suonare nelle balere con l’orchestra di liscio “Delia e i suoi boccioli”, sono sempre stata sorretta dalla speranza che il mio uomo, l’uomo che non aveva voluto darmi un figlio, ma lo aveva concepito con un’infermiera che poi era morta di cancro allo stomaco senza nemmeno aspettare che fossi io ad augurarle una morte simile, quell’uomo che mi aveva portato a casa quel bambino orfano che aveva gli stessi occhi di suo padre e che io conoscevo bene perché, ragazza, mi avevano fatto innamorare, quell’uomo che mi aveva ucciso il canarino mettendolo nel mortaio e schiacciandolo col pestello, che mi portò dalla Veneria per una vacanza per poi correre a denunciarmi per abbandono del tetto coniugale,   proprio lui spirando sussurrò ” Ho fatto una quaterna al lotto”.
E’ stato un attimo dimenticare le umiliazioni e le sofferenze. “Dove, dove sono? ” gli ho urlato nell’orecchio.
Niente. Morto. Ed era brutto anche da morto.
Da allora ho scavato sotto il fico, ho fatto buchi nell’orto al punto che non cresce più neppure la gramigna, ho squartato il suo materasso, cercato nel barattolo della farina e in quello della mostarda, ho tranciato in due il serbatoio della sua motocicletta con la sega circolare.
Niente.
Poi ho preso l’urna delle sue ceneri e mentre ne versavo il contenuto dentro la tazza del cesso ho visto volare un pezzo di carta filigranata.
Potrei pensare ad un errore dell’inceneritore ma conoscendo mio marito sono sicura che se li è portati all’inferno.

BOTTE

Lui l’ aspettava all’imbrunire, quando andava al rosario di maggio, col velo in testa e la testa persa in mille altri pensieri che non comprendevano i misteri dolorosi. L’estate successiva lui si comprò un paio di scarpe Zenit e andò nella casa dei vecchi per affettare il salame che sanciva l’accordo di nozze. L’Emilia era diversa dalle altre ragazze: alta per la statura delle donne di allora, i capelli neri come le ali del corvo, il viso pallido con le gote rosse che solo i vent’anni sanno dipingere con la vita in campagna e le canzoni da mondine urlate nei campi. Sapeva di sposare una donna fiera, una donna con la forza della dignità che non avrebbe mai abbassato lo sguardo in una discussione e la voleva proprio così. E così l’ebbe. Non si aspettava la sua reazione quel giorno che la riempì di botte. C’erano donne che le prendevano dai loro uomini di santa ragione e si rintavano in casa fin quando i lividi non scomparivano. L’ Emilia no, non era il tipo. Donne che giustificavano il viso tumefatto con la distrazione e con spigoli spuntati improvvisamente davanti a loro in quella casa così conosciuta che a volte mutava disposizione del mobilio senza che nessuno spostasse una sedia. L’Emilia no, non era il tipo. Quel giorno uscì, andò all’osteria e tranquillamente raccontò a tutti che il suo uomo l’aveva picchiata perché era ubriaco. Non so se sia stato perché era una bella donna, non so se lo fecero perché aveva avuto il coraggio di un uomo, so che gli amici del suo uomo lo derisero per un mese intero e lui non solo non la colpì più ma iniziò a portarla all’osteria per far due chiacchiere con la moglie dell’oste.
Fu così che mia madre e l’Emilia divennero amiche.