Io lo sapevo che non era la mattinata giusta, perché queste intuizioni ti sono chiare appena scendi dal letto e scivoli sulla pedana mandando l’osso sacro a sbattere contro la fiancata in finto legno massello che proteggerà anche il materasso ma ti condanna, per il resto della giornata, a stramaledire quella volta che decidesti di entrare da Pizzetti arredamenti.
Non mi devo far vincere dallo sconforto, il mio neuropsichiatra me lo ripete come un mantra. Ce la farò ad arrivare a tempo in ospedale per il deposito delle urine e il prelievo del sangue. Si, ce la farò.
Non mi può fermare, ne’ il cretino che attraversa la strada sulle strisce, ne’ le auto parcheggiate in terza fila davanti alle scuole.
Raggiungo il policlinico. O meglio, lo immagino, vista la coda chilometrica per accedere al parcheggio. Al grido di “Non possono vincere loro“ supero, strombazzando col clacson, le auto incolonnate e con una mossa degna di Schumacher arrivo davanti al gabbiotto del custode, ritiro il tagliando ed entro.
All’accettazione analisi, odore di urine, feci e altro materiale organico di non facile identificazione mischiato a sudore, aglio, naftalina e puzza di vecchio, di morte.
“Non possono vincere loro”. Passo davanti a tutti fregandomene delle donne incinte, degli handicappati, dei vecchi in carrozzina di quelli che si sono alzati alle quattro per essere i primi a fare la coda.
Consegno le mie urine e ricevo il tagliando per il prelievo.
Altra coda.
Litigo con una donna che probabilmente crede di essere in una balera visto il trucco che le cola dagli occhi per il caldo, mi faccio largo fingendo un attacco di panico e ammonendo un pensionato “tanto tu non fai un cazzo tutto il giorno, puoi aspettare”.
Entro arrotolo la manica della camicia e mi prelevano tre flaconi di sangue.
Esco torno casa e mi piazzo davanti alla tv.
Sono disoccupato da cinque anni.
Ripensandoci potevo prendermela comoda.
Non avevo poi tutta sta fretta di sapere che un cancro mi divora il cervello.