CANTONATA

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Giulia, amore, aprimi. Aprimi  o sto attaccato a questo campanello tutto il resto della notte. Giulia, Giulia! Tanto lo so che sei in casa. Ho incontrato quella stronza della tua amica Sonia in birreria e mi ha assicurato che te ne stai rintanata in casa per non incontrarmi. Apri Giulia ti prego. Ok, ok lo ammetto, ho sbagliato, non dovevo, lo so, sono uno stronzo, un deficiente, un cretino. Vuoi che lo urli? Adesso apro la finestra del pianerottolo e ti assicuro che tutti nel quartiere sapranno che ti amo. Si, io ti amo. Lo capisci? Ti amo! E adesso apri questo cazzo di porta o la sfondo. Si, sto esagerando non riuscirei a sfondare una porta blindata. Ma quando l’hai messa? Senti Giulia, adesso mi siedo qui, appoggio la schiena alla tua cazzo di porta e inizio a cantare “ bella come la marea, come la diarrea, come quella volta e l’altra ancora, e gira il mondo gira” Cazzo vuole lei? Canto fino a quando mi pare, se ne torni in casa a guardare Pippo Baudo brutta vecchia pettegola. Giulia, Giulia, hai sentito? La tua vicina spiona, quella che non si fa mai i cazzi suoi, l’ho già liquidata e se non la smette di guardarmi dallo spioncinole cemento la porta. Giulia, amore, sì o bevuto ma poco, quel tanto che basta per rilassarmi, 5 Ceres e 3 Becks e ho il vomito e ho sonno e da qui non mi muovo. Giulia apri sto cazzo di porta porca vacca schifosa malnata. No, non tu, la porta è una vacca porca schifosa e malnata, tu sei il mo angelo, io senza di te sono perso. Ti supplico Giulia almeno aprimi e parliamone. Guarda che è una balla quella che ti hanno raccontato. Con la Fede non ho fatto niente. Si, eravamo nel privè, ma parlavamo e qualsiasi cosa ti abbiano detto è falsa. Parlavo di te, te lo giuro. Che poi lei abbia preso la mia mano e se la sia portata sulla tetta è stato l’impulso di un momento, voleva che sentissi che anche lei aveva un cuore e mi capiva. Capita a tutti no? Giulia adesso basta   a p r i    s t o   c a z z o   d i    p o r t a!

   

Si, ecco brava, ancora una mandata amore mio.

   

“Cara al me zuvnott, sal saviss com an dispiase che cal belli paroli in sia minga par me ma per la sgnurina Giulia perché al dev saver che la sgnurina la sta al pian ad sovra, propria insima al me apartament, al faga mo’ n’altra rampa da scali e al ripeta tutt alla signura cag gh’ interessa e l’um lasa durmir che a la me età l’è già dificil ciapar sonn e se lu al continua a sigar acsè am toca star dasdada tutta la nott a sintir al so lamentasion”.        

PUCCIPUCCI

E dai

No

Cara

No

Amore mio

No

Su

No

Tesorino dolce

No

Puccipucci

Smettila

Cuore mio

No

Babà alcoolico sormontato da panna montata

Piantala ho detto no

Stella polare della mia esistenza

Ma sentitelo

Zuccherino

No

Dolcezza impagabile

No

Faro delle mie maree

Lascia perdere

Micetta

No

Pussy pussy

………

Gattina pelosa

Oh basta!

Trottolina ballerina

Ho detto no

E dai amore mio, cuore mio, fegato mio, appendice della mia esistenza

Piantala

Unica donna che riempie i miei vuoti

No e falla finita

Piccolina tenera e morbidosa

………….

Boccuccia di rosa

………….

Tenero fiore appena sbocciato

………….

Luce della mia vita

………….

Iride dei miei occhi

…………..

Tatina

…………..

Topolina

…………..

Salvadanaio dei miei tesori

…………..

Unico amore della mia vita

 

E va bene ma questa è l’ultima volta che ti tolgo i peli del naso con la mia pinzetta!

DEBACLE

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Sono 49 giorni che non ho notizie di te.

Quell’ultima volta, al telefono, sentivo l’odore del tuo dopobarba mischiato ai nostri lunghi silenzi.

“Mangi?”

“Si”

 

 

“Per il resto?”

“Bene”

 

 

“ Allora ti aspetto”

“Si”

 

 

“Io…”

“Cosa?”

 

 

“Niente. Ciao”

“Ciao”

 

 

Era finita già con quella telefonata: avevo detto basta.

Poi, quel giorno ho chiuso la porta di casa tua e me ne ero andata senza voltarmi una sola volta. 

Mi sono sentita forte quel giorno e non poteva essere diversamente. La notte prima mi avevi scopato senza gemiti, senza dire una parola. Il tuo fiato su di me, i colpi meccanici, persino le tue mani erano stanche di percorrere il mio corpo. E’ stato allora che ho deciso. Quello sarebbe stato il mio ultimo finto orgasmo.

Non mi hai cercata per mesi. Normale, tu sai vivere senza di me.

Sapevi anche tu che la nostra storia non era una storia, che ero io ad amare per entrambi, che togliendomi di torno sarebbe stato riacquistare ossigeno. Ti ho evitato anche le discussioni, le ripicche, il rinfacciare le cose, i pianti e le scene madri.

E adesso un sms. “ Leggi Camus”.

No, non lo leggo Camus perché l’ho già letto ma tu non puoi saperlo perché non mi hai mai chiesto niente, non ti sei mai degnato di interessarti alla mia vita fuori da quel letto. Leggilo tu  Camus ma non limitarti a leggerlo, cerca di capire cosa intendesse per legami tra esseri umani, quei legami così forti che arrivano a spezzare il legame stesso. Non solo hai ucciso il mio stupido amore ma poi lo hai divorato imbrattandoti la camicia di sangue soddisfatto del tuo massacro.

Adesso puoi continuare lo stillicidio degli sms, dei due squilli come segnale, del passaparola con gli amici comuni, del “glielo faccio sapere indirettamente”.

Sono ancora pronta a subire la tua violenza perché ho perso la stima di me.

Mi sono persa completamente nell’ombelico di un uomo che aveva bisogno di umiliarmi per sentirsi importante, maschio, raro.

Se è questo che ti serve per esistere finisci lo sterminio.
Entro volentieri nella camera a gas se tu sei felice.

URGENZE

 

 

 

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Scrivimi una lettera.

Mandami una mail.

Fammi un telegramma o mandami un piccione.

Ma trova il modo di dirmi che mi vuoi ancora.

Ripetimi quello che mi dicevi ieri sera. E’ passato troppo tempo da ieri sera.

Non fare caso al mio mal di testa, fammelo passare.

Non ascoltare quando dico che sento caldo. Fammelo passare.

Fammi passare la noia degli odori ripetuti.

Usa quelle parole,usa  le tue mani, usa le tue labbra, usa il tuo corpo.

E portami via da qui, senza svegliarmi.

QUAQUARAQUA’

BOTERO DONNA CON OMETTO

Ma cosa ti credi tu?
Che me ne stia appollaiata sul trespolo aspettando di impiccarmi con la catenella che mi tiene la zampina?
No, caro, ti sbagli, eccome se ti sbagli. Te lo faccio vedere io chi sono. Intanto mi sono iscritta ad un corso di fotografia e con tutto il gruppo me ne vado nei fine settimana in mezzo alle valli, tra zanzare e tafani, a cercare la luce giusta per immortalare il cavaliere d’Italia e non è detto che non mi iscriva anche alla palestra di via Cairoli, quella frequentata dalle strafighe che piacciono a te, quelle che si mettono la tutina aderente per mostrare gli addominali a lattina da birra e hanno le unghie finte perché sono talmente insicure che se le rosicchiano ancora nonostante abbiamo superato da tempo l’età dell’innocenza e dei rossori. Non credere che adesso mi rintani in casa piangendo tutte le lacrime che mi sono rimaste nel canale oculare che tu neanche ti immagini che riserve ho e in tutti i modi non ho nessuna voglia di piangerle per te, piuttosto le verso per il silicone deformato sulle labbra di Nina Moric o per la storia d’amore finita tra la Arcuri e Montano. Non certo per la nostra che poi non era neanche una storia d’amore. Già, come la vogliamo chiamare la nostra? Una scopata e via? No, perché neanche sapevi scopare. Se nessuna te lo ha mai detto, sappi che fare su e giù sette volte, emettendo grugniti, non vuol dire scopare. Non vuol dire scopare entrare in camera da letto, piegare i pantaloni mettendoli nell’ometto, appendere la camicia alla croce perché non si stropicci, sfilarsi le mutande appoggiandole alla sedia mostrando l’attrezzo in tutta la sua morbidezza, tenendosi la maglietta e i calzini ” che poi prendo freddo”. Mi sono stancata di fingere orgasmi che non ho mai provato, esaltare prestazioni che persino un adolescente inesperto condurrebbe con maggiori risultati, mi sono rotta i coglioni di aspettare le tue telefonate che non arrivano, i tuoi sms aridi ma forbiti, il tuo pontificare su tutti e su tutto. Mi sento solo un po’ stupida per essermi innamorata di te ma avevo bisogno di amare e te l’ho dimostrato portandoti a lasciarmi. In realtà non avrei retto la fine del tuo caffè mentre mi dicevi ” Finiamola qua”. Se mi sono trattenuta è perchè me lo sono imposta: dovevo guardare l’ultima volta quella faccia da culo quando crede di dire cose fondamentali per l’umanità.

RITRATTO

BOTERO NUDO CON SEDIA

E’ instabile come il tempo a primavera. Ha giornate cariche di pioggia che improvvisamente scendono a scrosci invadendo la vita degli altri e giornate luminose trasportate da un vento leggero che le brilla negli occhi.
E’ fragile come i vasetti di porcellana che colleziona piccoli gioielli posti su un ripiano che non spolvera mai perché non può essere lei a togliere la polvere del tempo dagli oggetti così come non riesce a farlo alle persone nei suoi ricordi. E la sua mente è piena di ricordi impolverati da cui spuntano, a tratti, dita che le scorrono sul corpo o labbra grigie che le baciano il collo teso.
Caparbiamente, come uno stambecco che non rinuncia a scalare una vetta per cercare cibo solo perché c’è una bufera di neve, deve raggiungere la cima per guardare il mondo, sola, senza rumori intorno. Allontanarsi è una necessità per vincere la paura della solitudine che però adora proprio come chi riesce ad innamorarsi del suo carnefice.
E’ inzuppata di dolcezza come un biscotto e come un biscotto si scioglie ogni volta che una voce, quella voce, la cerca, la vuole, la chiama, la imita, la porta verso altri percorsi della mente in cui incespica, si ferisce, senza rinunciare a strappare le ragnatele che le impediscono la nuova visuale che le appare davanti.
Deve aver amato molto e deve essere stata amata altrettanto in quel gioco di attivo-passivo che gli altri definiscono amore e che lei non ama definire ma vivere con la stessa passione e ogni volta dimenticando le lacrime precedenti, le scenate, i piatti rotti, le fughe e le riconciliazioni.
Ha fascino e non si svende conoscendo il suo valore.
E’ una donna. E’ diversa. E’ unica.
Irriproducibile.

TERRITORI

 
PRAGA

Ho i capelli raccolti, trattenuti dalla matita che porti sempre nella giacca, si, perché tu non usi penne o, peggio, stilografiche, tu usi matite Faber Castell 2B, tratto deciso.

Ma non mi sono innamorata di te per questo, questo è solo un particolare che ha certo la sua importanza ma non è mai stato determinante.

Decisiva è stata invece la tua voce quando mi hai fermato sul Ponte chiedendomi di ritrarmi. Non ero stupita della richiesta ero stupita che mi fosse stata fatta in italiano. Non ho un’aria italiana, non vesto da italiana.

E’ un’altra delle cose che non ti ho mai chiesto.

Ma non si chiede mai quando si ha paura della risposta.

Si lascia scorrere come il corteo che va verso lo stadio per la finale dell’Eurolega e fa chiasso come la Moldava che inizio ad odiare e che mi riempie gli occhi di acqua mentre esci dal bagno con l’asciugamano stretto sui fianchi.

Cosa ci faccio in questo albergo, in questa città che ha perso la sua magia perché tu gliel’hai rubata per regalarmela in una notte dentro una Lanterna Magica? Aspetto il tuo tempo. Sei il mio Golem che ti accetti o no. Ma sei di argilla che mi piaccia o no.

Appoggiata al davanzale della finestra, con la tua camicia addosso a coprire l’essenziale, ti do le spalle ma sento che mi stai guardando.
I tuoi occhi cercano il neo che ho sul collo, vicino all’attaccatura dei capelli e scendono fino alle gambe tese per quella posizione innaturale che le ho costrette ad assumere per guardare il fiume.
Devo girarmi, devo parlare, non devo permetterti di avvicinarti.
Ma tu sei già dietro di me a respirarmi.
Rimanderemo a dopo, al prossimo anno, alla prossima fuga.
Lontano chilometri dai nostri amori quotidiani, dalle nostre miserie.
E quando finirà, perché lo sai che finirà, porterò qui il nuovo amore : avrà il dovere di distruggere il ricordo che lega Praga a te e potrò di nuovo essere libera di cenare al Mecenas farmi dare la bambolina con la chiave dei bagni chiudermi dentro, piangere e tirare lo sciacquone.
 

 nato da una incrocio di esperienze con haikumeccanico

MARIA

Fu solo il giorno dopo, quando andò in granaio per stendere i panni lavati con la cenere che lo vide dondolare. Non si era preoccupata non vedendolo rincasare la notte precedente, era abituata alle sue assenze su cui non indagava per non sentirsi ferita. Depose la cesta con le lenzuola pulite, si sedette su quella vecchia cassa che sapeva ancora di grappoli maturi e iniziò a parlagli:
“No, non riuscirei mai a tagliare quella corda che ti tiene sospeso e non sono neppure sicura di volerlo fare. Mi infastidiscono solo i tuoi occhi sbarrati, quegli occhi che ho amato tanto da dimenticarmi del figlio che non hai mai voluto darmi, per cui ti guardo i piedi che continuano a ciondolare per quello spiffero che non hai mai riparato. Mi accorgo ora che è più la tua non presenza ad avermi riempito la vita, il tuo non esserci, il tuo non fare. Non è stato per dispetto, è successo e basta. Ecco, la tua bocca adesso è proprio come lo è sempre stata, con le parole morte in gola strozzate dalla sofferenza di un mal di vivere che non ho saputo capire ma che ho intuito. Che buffo nome ti hanno imposto, adesso non riesco neppure a pronunciarlo sottovoce mentre mi viene naturale finalmente darti del tu. Non si può dare del voi ad un uomo che pende dalla trave di colmegna e mi perdonerai se non so come si chiama in italiano. Se solo fossi riuscita a parlarti come faccio adesso guardandoti i piedi, perché sarebbe stato troppo sfrontato fissare i tuoi occhi azzurri, forse, ecco, forse avresti rimandato il gesto e forse sono stata muta come sempre aiutandoti silenziosamente a portare a termine il tuo lavoro. Chi ero io, povera contadina ignorante, da impedirti di compierlo? Che parole avrei potuto usare se neppure riuscivo a venirti vicino nelle sere di gelo fuori e dentro il letto? Suoneranno due rintocchi per te che sei un uomo e quando sarà la mia ora verrò accompagnata da un unico rintocco per ricordarmi anche da morta che sono la metà di te che adesso mi penzoli davanti e non ti accorgi che, per la prima volta, non sto piangendo”.

Felice si impiccò a 34 anni Maria ne ha 98 e nessuna intenzione di morire

DONNE

Io l’ho fatto sotto la cascatella, a Pejo, mentre andavamo alla diga di Pian Palù. “Ultima chiamata per Mister Valantine” e lui che mi scopava alla grande nei cessi del gate 64 per Monbasa. Ricordo quella volta nella stradina di campagna quando il contadino venne a trainarci con il trattore perché si era piantato nel fango e col cazzo che il 4×4 da solo ce la faceva. E quella volta al ristorante? Quando mi sfilò le mutande e iniziò a frugarmi fino al punto di riuscire a farmi fare i gargarismi con il Marzemino appena stappato? Non voglio neppure ricordare quando il mongolo alla frontiera finlandese ci urlò “Porci” in russo dopo averci sorpreso incastrati tra il vano portavaligie e la retina sfondata. E che ne dite di quella volta che mi incantonò sotto il palco un quarto d’ora prima di salirci sopra per tenere un discorso sull’opportunità di una discarica a 22.000 cittadini incazzati? Nei racconti delle donne essere state oggetto di possesso erotico nei luoghi più strani o pericolosi è sinonimo di passione erotica vera. La vecchia centrifuga della lavatrice è un ricordo da lavandaie. Il vero amore il nostro uomo ce lo dimostra solo se ci zompa addosso mentre siamo in coda all’ACI e l’acida signorina alla cassa urla “Il prossimo” sgranando gli occhi vedendo che le sue mani sono sotto il nostro maglione e mentre lui si giustifica con una “ La voglio adesso” lei si alza stizzita e chiede una pausa-caffè. Niente è più esaltante che far schiattare gli altri di rabbia sbattendo loro in faccia il nostro desiderio, la voglia di allargare le gambe a quell’uomo che non sa tener ferme le mani fino a casa e una volta chiusa quella porta spalanca le finestre e, come un nuovo Christopher Lambert in Greystoke: la leggenda di Tarzan, lancia il suo “ Uh Uh Uh Uh Uh” di bestia che ha raggiunto l’orgasmo.
Siamo donne, splendide donne innamorate.

PITTORI

4b66106231e6d3197968bac534d38d4a.jpgAle ama le donne.
Ale ama le donne sbagliate, sempre.
Ha due pieghe profonde sul viso che lo fanno assomigliare ad un cane, gli occhi trasmettono la tristezza silenziosa degli abissi, le sue mani sono enormi e hanno il profumo della tempera a cui lo iniziò il primo grande amore a cui non bastava un operaio da amare ma perlomeno lo voleva artista. E allora lui comprò tele e pennelli per ritrarla e la perse dentro ad un paesaggio che regalò come dono di nozze ad un amico gobbo.
Poi fu la volta della piccolina, quella che gli arrivava ai fianchi e che lo voleva intellettuale. Si iscrisse alle serali che frequentò con profitto fino al raggiungimento del diploma da ragioniere che non gli sarebbe mai servito lavorando da un artigiano che costruiva blocchi di cemento per l’edilizia. La piccola se ne andò quando Ale le presentò il tecnico dei televisori chiamato per riparare un tv che lui non accendeva mai.
Intanto sua madre moriva e quel posto vuoto fu occupato dalla miope svanita che lasciava cicche di sigarette sui mobili di casa bruciando il bordo di quei ricordi familiari. Prima ancora che Ale capisse che quella donna cercava solo un appartamento senza canone d’affitto la miope se ne andò con l’uomo dalla villetta a schiera e nel trasloco gli portò via il canapè, l’unico salvato dalle sue bruciature di sigaretta.
Ale adesso beve caffè corretto con la grappa, vive coi topi in giardino, mi ha dipinto di spalle mentre mi raccolgo i capelli e non sorride mai.