PALCOSCENICO

 

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Quella sera la piazza era deserta.
Il palco del comune era spoglio, le luci spente, la gente dormiva con le finestre accostate. Solo i lampioni illuminavano le assi ancora bagnate dal temporale appena passato. Era il tempo del nostro amore felice, delle notti che non finivano mai, dei discorsi interrotti da altri discorsi per la voglia e la necessità di continuare a sentire il suono delle nostre voci accavallate dalle parole e dalle risate.
Ti sei seduto in prima fila, su una sedia bianca di plastica ancora bagnata e hai aspettato che iniziasse lo spettacolo.
Ho recitato per te quella sera, per te che mi guardavi sorridendo e scuotendo la testa quando improvvisavo passi di danza da ballerina classica senza neppure conoscerne le posizioni elementari e non avendone la postura.
Ho recitato per te quella sera e fingendomi mimo dipanavo la nostra storia d’amore nata per caso sulla panchina del parco dopo la mia prima gaffe su tua madre che era morta da tempo.
Ho recitato per te quella sera il monologo senza senso di Lucky dell’Aspettando Godot di Beckett la simbologia di quel sapere fatto di parole ma privo di significato.
Ti ho sentito, sai, quando quel vecchio che tornava dall’osteria a piedi, si è fermato a guardarmi. Si è seduto vicino a te e tu dandogli una gomitata sul fianco gli hai detto: “La vede com’è brava? E’ la mia donna.” “Lei è un uomo fortunato” ti ha risposto in dialetto ma tu lo sapevi già e hai solo annuito.
Mi avete applaudito assieme e io ho ringraziato con un inchino da damina.
Non ho mai più avuto un pubblico così attento.