DIVA

Non so che ramo di parentela ci fosse tra noi. Non so neppure come fossi arrivata a vivere a casa nostra. Forse non eri neanche nostra parente, ma la tua camera, 2 metri per 4, era alla fine della scala, sulla sinistra, vicino al bagno rosa.
Portavi abiti dannunziani, tu che d’Annunzio lo avevi conosciuto davvero e lo avevi amato non so se solo nelle tue fantasie o anche nella realtà.
Entrare nella tua camera, per me bambina, era sbirciare nel camerino di una diva dei telefoni bianchi. La tua aria diafana, quel neo sulla guancia destra che marcavi con la matita nera, la parrucca sotto il foulard annodato dietro il capo che non ti sei mai tolta, neppure al mare mentre mi ricorrevi sudata sotto il sole di Rimini, i tuoi abiti con le spalline imbottite brutta copia dei vestiti di Marlene Dietrich, il tuo filo di voce che chiedeva scusa di essere viva, in quella casa che non ti apparteneva, in mezzo a persone che non erano della tua specie ma soprattutto quel senso di non appartenenza al mondo reale ti facevano diventare, per me bambina, la donna che avrei voluto essere perché in bilico tra i sogni e la fantasia.
Di te ho salvato una scatolina rossa, di cartone, dov’è pressata una polvere rossa che usavi, con un minuscolo piumino, per arrossare le tue guance pallide e apparire come la bambola che tenevi sul letto, le braccia rigide alzate, le gambe aperte, il vestito rosa coi voulant e gli occhi fissi e spalancati a guardare un mondo che avevi chiuso da tempo dalla tua vita.