INNOCENZA

Sono innocente, glielo giuro signor giudice, voi lo chiamate omicidio preterintenzionale, che va oltre l’intenzione. Ma se questo è il capo di imputazione glielo ripeto sono innocente. La verità è che io volevo veramente che morisse, ma non così facilmente, ovvio, io volevo che soffrisse e invece è stata solo quella randellata ben messa che gli ha fatto concludere velocemente la sua breve vita. I fatti sono esattamente quelli che ha raccontato l’accusa con un solo particolare omesso:
quella sera non lo incontrai per caso l’avevo pedinato a lungo.
Glielo racconto perché potrebbe essere motivo di riduzione della pena per circostanze attenuanti.
Dopo un appostamento di ben 4 ore dietro il bidone della spazzatura all’angolo della sua via che mi dava modo di vedere senza essere vista, il meschino è uscito di casa e, dopo una sbirciata alla vetrina del pasticcere per l’ultimo controllo del ciuffo, si è diretto alla sua auto con fare circospetto perché, anche se posteggiata ad una distanza irrisoria dal suo portone ancora non aveva messo a fuoco bene lo sfregio fatto con le chiavi che serigrafava la carrozzeria.
Sfido chiunque ad addossarmi anche questo reato: mentre la chiave rigava implacabilmente la portiera io ero nella suddetta pasticceria divorando una brioches alla marmellata e tutti possono testimoniarlo. E se credete che io sia il mandante, trovate le prove, perché il legittimo sospetto, qui, non ha valore.
Si, signor giudice, lo vidi contrariato quando si accorse del segno aprendo la portiera ma partì alla volta di via Verdi dove notoriamente abita una di quelle puttanelle che adesca in libreria, reparto Liala, e dopo averle irretite con la solita panzana del “Vieni bimba, farò di te un’intellettuale”, le porta a casa sua e se le scopa.
Lo seguii con la vespa e arrivai prima di lui, zuppa di pioggia e con i moscerini appiccicati alla faccia, salii i 37 scalini che portavano al primo piano e mi riposai.
No signor giudice, mi riposai dallo sforzo e dalla corsa, non creda a quello che dice l’accusa, non preparavo nessun agguato, è stata la mia gamba che ad un certo punto, forse intirizzita dal freddo, ha avuto un moto di vita propria e si è allungata in avanti proprio mentre la gamba del misero si sollevava per un’ultima falcata. Questione di secondi e l’uomo dal ciuffo era a piano terra rantolante ma vivo. Non doveva andare così, glielo ripeto. Lui doveva suonare il campanello e solo in quell’istante i fili avrebbero fatto un corto scaricando tutta l’elettricità del quartiere a terra non prima di aver attraversato il corpo del fedifrago. Capirà, vederlo a terra così, è stato un colpo basso: il mio piano andava in farsi fottere. E allora scattò la molla e con essa anche l’idea: finirlo a randellate con la spranga di ferro che mi ero portata provvidenzialmente da casa.
Le sue ultime parole furono: “Io amo solo te, aiutami”.
Capisce anche lei che era l’unica frase che poteva fare a meno di pronunciare, lo avrei aiutato comunque ed infatti il colpo è stato preciso, secco e non ha sofferto: in questo ho sbagliato e me ne addosso la responsabilità totale.