ATTACCAMENTO

 

 

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Non fu facile accollarsi quella responsabilità ma non esistevano alternative. Il nostro appartamento troppo piccolo, una stanza da letto un bagno e la cucina, e lei bisognosa di troppe cure e di un’assistenza continua. Avevo gli occhi umidi quando lasciai la mia dolce nonnina nella casa di riposo “ Sandro Pertini”. Ne avevo girate parecchie e quella struttura era la più moderna e confortevole con personale professionale ottimamente formato. C’era anche un animatore, decisamente isterico, ma non si può avere tutto. Ogni giorno passavo a trovarla per assicurarmi che il trattamento concordato fosse rispettato. Certo mi costava parecchio tenerla in quell’ospizio, ma quanti anni sarebbe vissuta ancora? Due, tre, cinque? Lei mi aveva allevato e per lei avrei dato tutto. Festeggiammo il suo settantacinquesimo compleanno con un arrivederci in gola mischiato al groppo, coscienti di ogni bugia che le dicevamo, cara e dolcissima nonnina. I suoi occhi erano felici mentre si sbaffava la fetta di torta del suo ottantesimo compleanno e contemporaneamente scartava i pacchetti con i nostri regali. Acquistati senza badare a spese, tanto poi, ce li saremmo ripresi presto. Vennero i novantacinque, i novantasei, i novantasette e a quel punto iniziammo davvero a sperare che quella maledetta vecchia ci arrivasse ai cento, almeno saremmo rientrati delle spese di tutti quegli anni in qui l’avevamo mantenuta in una superstruttura per anziani: Arrivarano infatti interviste sui giornali, tv locali e nazionali, settimanali e si mostrò interessata anche la rivista della Confcommercio 50 & più. Di soldi non solo mancava l’odore ma anche l’ombra. Ai cento quella vecchia srega era più in forma di me: attaccata alla vita come una piattola ai peli pubici. Ingozzati brutta stronza di una vecchia arpia, abbuffati di torta e bevi, tracanna la coca cola e che ti possa andare di traverso, schifosa megera sdentata, spero che la tua vescica ceda e la tua piscia ti sommerga.

 

Sono a terra con un forte dolore al petto, sento l’alito della bastarda sul collo e il suo biascicare: “Stavolta l’hai presa nel culo tu nipotina dolce”.

 

APPIGLI

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Il 15 marzo Erio decise che era tempo di andare a casa di Gino.

Erano sei mesi che percorrendo la navata della chiesa la domenica mattina appoggiava la mano sul diciassettesimo banco dal fondo e non lo vedeva. Gino arrivava sempre prima di lui da quando erano chierichetti e si prendeva l’unica cotta con i polsi intatti ma la vigilia di Natale del ‘46 gli lasciò portare la croce in processione e ci sono gesti che legano le vite molto più di un matrimonio.

Gino sposò una brava ragazza. Lavorarono insieme quelle benedette 60 biolche di terra aspettando un figlio che non arrivò mai. Erio ne fece tanti di figli, uno per ogni  dolore.

Il 15 marzo Gino lo aspettava al sole, davanti all’uscio di casa. Se avesse potuto si sarebbe alzato, invece rimase seduto sulla sedia a rotelle e allungò la mano. Lentamente, con il suo passo malfermo Erio si avvicinò.

“ Mi siedo io al tuo posto su quel banco ora, te lo tengo caldo”

“ Non riesco più a venire”

Seguì una pausa lunga da far tramontare il sole.

“Andiamo a vedere la tua campagna Gino”

“Andiamo”

Erio prese le maniglie della carrozzina, vi si appoggiò come era solito fare col suo girello e lentamente andarono verso i peri.

Esistono viaggi difficili da percorrere senza sostegno. Perché serve coraggio.

E stringendo una mano non si ha paura neppure di una tempesta durante un volo in mongolfiera.