DONNE

Io l’ho fatto sotto la cascatella, a Pejo, mentre andavamo alla diga di Pian Palù. “Ultima chiamata per Mister Valantine” e lui che mi scopava alla grande nei cessi del gate 64 per Monbasa. Ricordo quella volta nella stradina di campagna quando il contadino venne a trainarci con il trattore perché si era piantato nel fango e col cazzo che il 4×4 da solo ce la faceva. E quella volta al ristorante? Quando mi sfilò le mutande e iniziò a frugarmi fino al punto di riuscire a farmi fare i gargarismi con il Marzemino appena stappato? Non voglio neppure ricordare quando il mongolo alla frontiera finlandese ci urlò “Porci” in russo dopo averci sorpreso incastrati tra il vano portavaligie e la retina sfondata. E che ne dite di quella volta che mi incantonò sotto il palco un quarto d’ora prima di salirci sopra per tenere un discorso sull’opportunità di una discarica a 22.000 cittadini incazzati? Nei racconti delle donne essere state oggetto di possesso erotico nei luoghi più strani o pericolosi è sinonimo di passione erotica vera. La vecchia centrifuga della lavatrice è un ricordo da lavandaie. Il vero amore il nostro uomo ce lo dimostra solo se ci zompa addosso mentre siamo in coda all’ACI e l’acida signorina alla cassa urla “Il prossimo” sgranando gli occhi vedendo che le sue mani sono sotto il nostro maglione e mentre lui si giustifica con una “ La voglio adesso” lei si alza stizzita e chiede una pausa-caffè. Niente è più esaltante che far schiattare gli altri di rabbia sbattendo loro in faccia il nostro desiderio, la voglia di allargare le gambe a quell’uomo che non sa tener ferme le mani fino a casa e una volta chiusa quella porta spalanca le finestre e, come un nuovo Christopher Lambert in Greystoke: la leggenda di Tarzan, lancia il suo “ Uh Uh Uh Uh Uh” di bestia che ha raggiunto l’orgasmo.
Siamo donne, splendide donne innamorate.

INNOCENZA

Sono innocente, glielo giuro signor giudice, voi lo chiamate omicidio preterintenzionale, che va oltre l’intenzione. Ma se questo è il capo di imputazione glielo ripeto sono innocente. La verità è che io volevo veramente che morisse, ma non così facilmente, ovvio, io volevo che soffrisse e invece è stata solo quella randellata ben messa che gli ha fatto concludere velocemente la sua breve vita. I fatti sono esattamente quelli che ha raccontato l’accusa con un solo particolare omesso:
quella sera non lo incontrai per caso l’avevo pedinato a lungo.
Glielo racconto perché potrebbe essere motivo di riduzione della pena per circostanze attenuanti.
Dopo un appostamento di ben 4 ore dietro il bidone della spazzatura all’angolo della sua via che mi dava modo di vedere senza essere vista, il meschino è uscito di casa e, dopo una sbirciata alla vetrina del pasticcere per l’ultimo controllo del ciuffo, si è diretto alla sua auto con fare circospetto perché, anche se posteggiata ad una distanza irrisoria dal suo portone ancora non aveva messo a fuoco bene lo sfregio fatto con le chiavi che serigrafava la carrozzeria.
Sfido chiunque ad addossarmi anche questo reato: mentre la chiave rigava implacabilmente la portiera io ero nella suddetta pasticceria divorando una brioches alla marmellata e tutti possono testimoniarlo. E se credete che io sia il mandante, trovate le prove, perché il legittimo sospetto, qui, non ha valore.
Si, signor giudice, lo vidi contrariato quando si accorse del segno aprendo la portiera ma partì alla volta di via Verdi dove notoriamente abita una di quelle puttanelle che adesca in libreria, reparto Liala, e dopo averle irretite con la solita panzana del “Vieni bimba, farò di te un’intellettuale”, le porta a casa sua e se le scopa.
Lo seguii con la vespa e arrivai prima di lui, zuppa di pioggia e con i moscerini appiccicati alla faccia, salii i 37 scalini che portavano al primo piano e mi riposai.
No signor giudice, mi riposai dallo sforzo e dalla corsa, non creda a quello che dice l’accusa, non preparavo nessun agguato, è stata la mia gamba che ad un certo punto, forse intirizzita dal freddo, ha avuto un moto di vita propria e si è allungata in avanti proprio mentre la gamba del misero si sollevava per un’ultima falcata. Questione di secondi e l’uomo dal ciuffo era a piano terra rantolante ma vivo. Non doveva andare così, glielo ripeto. Lui doveva suonare il campanello e solo in quell’istante i fili avrebbero fatto un corto scaricando tutta l’elettricità del quartiere a terra non prima di aver attraversato il corpo del fedifrago. Capirà, vederlo a terra così, è stato un colpo basso: il mio piano andava in farsi fottere. E allora scattò la molla e con essa anche l’idea: finirlo a randellate con la spranga di ferro che mi ero portata provvidenzialmente da casa.
Le sue ultime parole furono: “Io amo solo te, aiutami”.
Capisce anche lei che era l’unica frase che poteva fare a meno di pronunciare, lo avrei aiutato comunque ed infatti il colpo è stato preciso, secco e non ha sofferto: in questo ho sbagliato e me ne addosso la responsabilità totale.

DIVA

Non so che ramo di parentela ci fosse tra noi. Non so neppure come fossi arrivata a vivere a casa nostra. Forse non eri neanche nostra parente, ma la tua camera, 2 metri per 4, era alla fine della scala, sulla sinistra, vicino al bagno rosa.
Portavi abiti dannunziani, tu che d’Annunzio lo avevi conosciuto davvero e lo avevi amato non so se solo nelle tue fantasie o anche nella realtà.
Entrare nella tua camera, per me bambina, era sbirciare nel camerino di una diva dei telefoni bianchi. La tua aria diafana, quel neo sulla guancia destra che marcavi con la matita nera, la parrucca sotto il foulard annodato dietro il capo che non ti sei mai tolta, neppure al mare mentre mi ricorrevi sudata sotto il sole di Rimini, i tuoi abiti con le spalline imbottite brutta copia dei vestiti di Marlene Dietrich, il tuo filo di voce che chiedeva scusa di essere viva, in quella casa che non ti apparteneva, in mezzo a persone che non erano della tua specie ma soprattutto quel senso di non appartenenza al mondo reale ti facevano diventare, per me bambina, la donna che avrei voluto essere perché in bilico tra i sogni e la fantasia.
Di te ho salvato una scatolina rossa, di cartone, dov’è pressata una polvere rossa che usavi, con un minuscolo piumino, per arrossare le tue guance pallide e apparire come la bambola che tenevi sul letto, le braccia rigide alzate, le gambe aperte, il vestito rosa coi voulant e gli occhi fissi e spalancati a guardare un mondo che avevi chiuso da tempo dalla tua vita.

RIDICOLAGGINE

Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.

Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.

Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.

Ma, dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.

Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.

La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere d’amore
ad essere
ridicoli.

( Tutte le parole sdruciole,
come tutti i sentimenti sdrucioli,
sono naturalmente
ridicole ).

Fernando Pessoa il 21 ottobre 1935

FILOSOFI

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La prima volta gli telefonai perché in casa i termosifoni non si scaldavano e l’acqua scendeva gelata dal rubinetto.Lasciai correttamente il messaggio sulla segreteria telefonica con nome, cognome, indirizzo, numero di telefono e motivo della chiamata. Verso le nove di sera squillò il mio telefono.
Era lui, l’uomo della caldaia.
Mi domandò specifiche sul problema e dopo la mia esauriente spiegazione iniziò a parlarmi del senso della vita, della precarietà dei rapporti sociali, della sofferenza che si provoca involontariamente negli altri e dell’incapacità di ascoltarci dentro, concludendo con un appuntamento per il giorno dopo sempre che la notte fosse passata senza lasciargli il tormento dell’esistenza. Fu col terrore nel cuore e conscia della mia impreparazione filosofica che gli aprii la porta la mattina dopo. Fu una vera lezione accademica: nel quarto d’ora di pausa mi aggiustò la caldaia e lo pagai, i restanti tre quarti d’ora ebbi una conferenza sul perché delle cose del mondo.

Ricordo di aver preso appunti mentali, ma prego Dio tutte le sere di far funzionare la caldaia: ho il terrore che, quando tornerà, perché tornerà, perché tornano sempre, mi interroghi e mi trovi impreparata.

PALCOSCENICO

 

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Quella sera la piazza era deserta.
Il palco del comune era spoglio, le luci spente, la gente dormiva con le finestre accostate. Solo i lampioni illuminavano le assi ancora bagnate dal temporale appena passato. Era il tempo del nostro amore felice, delle notti che non finivano mai, dei discorsi interrotti da altri discorsi per la voglia e la necessità di continuare a sentire il suono delle nostre voci accavallate dalle parole e dalle risate.
Ti sei seduto in prima fila, su una sedia bianca di plastica ancora bagnata e hai aspettato che iniziasse lo spettacolo.
Ho recitato per te quella sera, per te che mi guardavi sorridendo e scuotendo la testa quando improvvisavo passi di danza da ballerina classica senza neppure conoscerne le posizioni elementari e non avendone la postura.
Ho recitato per te quella sera e fingendomi mimo dipanavo la nostra storia d’amore nata per caso sulla panchina del parco dopo la mia prima gaffe su tua madre che era morta da tempo.
Ho recitato per te quella sera il monologo senza senso di Lucky dell’Aspettando Godot di Beckett la simbologia di quel sapere fatto di parole ma privo di significato.
Ti ho sentito, sai, quando quel vecchio che tornava dall’osteria a piedi, si è fermato a guardarmi. Si è seduto vicino a te e tu dandogli una gomitata sul fianco gli hai detto: “La vede com’è brava? E’ la mia donna.” “Lei è un uomo fortunato” ti ha risposto in dialetto ma tu lo sapevi già e hai solo annuito.
Mi avete applaudito assieme e io ho ringraziato con un inchino da damina.
Non ho mai più avuto un pubblico così attento.

TITI

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Tu sei sempre appartenuto alla categoria “Troie”, quegli uomini ai quali difficilmente si puo’ dire di no. Scherzavi sempre per quel tuo naso importante, per quei capelli neri, drittissimi che ti cadevano sugli occhi, per quelle donne che portavi a casa e dicevi – Mica la sposo, la scopo e basta, mamma – scandalizzando tutta la famiglia che nonostante tutto ti adorava. Bello, come tutti quelli della nostra razza, anche tu avevi quel marchio sulla pelle, come me, come tua sorella, come mio padre. Abbandonavi diamanti grossi come patate e orecchini di rubini e bracciali di perle tempestati di smeraldi come Hansel lasciava briciole di pane. Non te n’è mai fregato niente dei soldi. Avevi il tuo sorriso e quello non te lo avrebbero mai rubato. Non dovevi blindarlo nel baule dell’auto come il resto, quello lo regalavi a tutti così come a me regalavi gioielli di cui neppure immaginavo il valore perché eri tu la vera ricchezza che sapevo di avere. Tu che te ne sei andato a 14 anni in un’altra casa, ostile, diversa, lontana, ma con un sorriso da cagacazzi da permetterti di conquistare il mondo. E lo hai fatto.
Sono cambiate molte cose sai da quel viaggio in auto che abbiamo fatto insieme e in cui tu ti ostinavi a mettermi in imbarazzo chiedendomi la differenza tra il bue e la mucca. Sarebbe stato il tuo ultimo viaggio.
Ti ho amato come si puo’ amare a 15 anni.
Ho una foto di te mentre dormi. L’ho rubata all’album di famiglia. Sei disteso sul prato, le braccia abbandonate, le gambe scomposte. Doveva essere un ricordo è diventato un presagio.
Era una festa quando tornavi. “ Uccidete il vitello grasso e stappate le bottiglie e si faccia festa per quel figlio di puttana che ritrova la strada di casa.
Un giorno non sei tornato più. Il tuo Mercedes non è più entrato nel cortile.
Ti hanno riportato a casa in un’altra auto e non si è fatta festa quella sera.

MANI

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Quelle mani calde come pani,
che si adagiano sulla brace violenta
di una ben stanca vita,
quel tuo volto
animato dalla follia
(che follia voler bene agli altri!).
Mi domando, a volte,
se le tue orecchie
sono gonfie di musica
o piene di polline vivo.

RISO

Il primo sguardo, il primo bacio, la prima notte d’amore, il primo appuntamento non sono niente in confronto con la prima risata che si fa insieme.Anche se, ciò che pensai allora fu un semplice: simpatico, il ragazzo.

DISTRAZIONI

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Devo essere una donna distratta. Continuo a perdere gli uomini
Uno l’ho dimenticato sul palco di un teatro, era vestito di bianco e fumava lentamente sigarette nazionali, un altro credo di averlo perduto a Imola al Gran premio, lo chiamai con un nome diverso dal suo e forse si offese. Uno l’ho mollato in riva al Po e piangeva ma non riuscivo più a toccarlo e ho riavvolto il plaid. Vittorio l’ho smarrito in un ospedale psichiatrico ricoverato perché alcoolizzato e gli si erano spenti gli occhi. Quello che ho perso a Praga aveva un intercalare buffissimo, ma li’ è stato facile, cammina molta gente sul Ponte Carlo, mentre è stato molto più difficile perdere l’uomo con velleità letterarie che mi riempiva di sciocche, banali e scontate poesie d’amore scritte da lui Ero diventata allergica alla poesia. Ho scordato, nel giardino di casa sua, l’uomo che mi faceva potare la siepe di pungitopo e aveva la casa più sporca e disordinata che abbia mai visto. Gabriele lo volli perdere quando mi disse, al mio ennessimo rifiuto:- Tu non ti sposerai mai, non sei fatta per sposarti- Se mi avesse sputato in faccia mi avrebbe fatto meno male. Quello bello, oddiocomerabello, l’ho ceduto in cambio di una libertà obbligatoria che mi aveva imposto, mentre l’uomo dalla voce che feconda lo barattai con una prima all’arena di Verona
E’ te che non riesco a smarrire.
Ritorni puntuale come l’anticiclone delle Azzorre nella mia testa
Vorrei portarti al mare e sentire finalmente l’altoparlante che dice: Achtung – achtung! E’ stato smarrito un uomo: indossa costume nero con una striscia verde. Chi lo avesse trovato è pregato di portarselo a casa. Non sporca, è tranquillo, beve molto ma non è violento, non perde il pelo e poi è così cretino che vi ci affezionerete.

Li perdo, ma non riesco a dimenticarli.