ESASPERAZIONE

 

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Sono stanca.

Stanca.

Stanca di leccare lacrime, stanca di accompagnare sotto braccio la sofferenza, stanca di consolare occhi perduti, stanca di fare il giullare per far respire un’aria pulita, stanca di caricarmi di dolore.

E oggi, tu non c’eri. Oggi sei rientrato nella tua tana sudicia di male cercando un odore, un oggetto, un respiro.

Non ci poteva essere, lo sapevi e allora di nuovo lo stordimento necessario, la fatica di respirare, la sconfitta dell’impotenza. Che poi ti vengano a parlare di Dio, di resurrezione, di speranza di fai le cose giuste. Chi cazzo stabilisce il giusto? Non quella pletora di cantori sudati, ne’la triade di mercanti sconfitti dal tempo.

La vuoi tu la mia sorte? Tu che pontifichi, la vuoi vivere tu la mia vita? Dov’eri mentre mi spezzano le ossa a randellate, dov’eri quando quella notte non riuscivo a guidare perché i miei occhi erano pieni di lacrime? Perché non mi hai preso le mani lerce? Puzzavo troppo di vomito e urina?  E allora, adesso, taci. Taci e non parlarmi più.

Ho chiuso il portone del mondo. Lascia che il toro mi incorni, non farà più male che non averti tra le braccia.

La vostra preoccupazione arriverà fino a mezzogiorno poi sarete di nuovo felici di non avermi partorito.

DISADATTAMENTO

 

 

 

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La negra è impazzita. O meglio, come dicono i medici del reparto psichiatrico, ha una forte psicosi.

Insomma è matta.

E si comporta da pazza.

Cammina per strada scalza, cammina tra il traffico urlando la sua voglia di libertà, piange rabbia ridendoti in faccia. Che a dirla così, ti fa quasi commuovere. Ma poi scopri che la negra è una stronza, dispettosa, orgogliosissima, vanitosa fino alla pacchianeria, piena di acidità che trasuda dai suoi occhi fin dentro ai tuoi. E odia i bianchi. Ed è circondata da bianchi. Medici bianchi che non riescono a capire, cui non è mai capitato di curare una negra impazzita, datori di lavoro bianchi che la trattano con rispetto ed indulgenza, perché, sai, viene da un paese africano e se la si tratta come gli altri poi ci si becca la nomea di razzisti, una padrona di casa bianca che non osa contraddirla anche quando le calpesta le aiuole fiorite. La negra ha anche un marito. Uno stronzo. Uno che sarebbe stronzo anche se fosse bianco e che non la porta mai al S.I.M.A.P. per farla curare e che, anzi, le vieta di prendere i farmaci prescritti che “tanto la medicina dei bianchi non va bene per te, ti intontisce e basta”. Un marito che ha un’altra moglie e altri figli in africa  e non ha mai pensato che uno dei motivi della destabilizzazione mentale della moglie potrebbe derivare da anni di sopportazione di una situazione intollerabile per qualunque donna asiatica, africana o causasica che sia.

La negra a 22 anni, si è sradicata, ha dovuto imparare a indossare le scarpe, si è dovuta adattare a vivere al freddo e confrontarsi, lei, donna dal culo che fa provincia, con donne dall’aspetto esile e un lato B proporzionato.

La negra ha ceduto e nei suoi giorni migliori canta nenie africane intercalate a maledizioni in lingua swahili.

BRIDGE

Ne ho avuto abbastanza

Sono stufa di vedere e di toccare entrambi i lati delle cose

Stufa di essere il maledetto ponte per tutti

Nessuno può parlare con nessuno senza di me, giusto?

Spiego mia madre a mio padre,

mio padre alla mia sorellina,

la mia sorellina a mio fratello,

mio fratello alle femministe bianche,

le femministe bianche alla gente della Chiesa Nera

la gente della chiesa nera agli ex-hippies,

gli ex hippies ai separatisti neri,

i separatisti neri agli artisti,

gli artisti ai genitori dei miei amici

Poi

Sono riuscita a spiegare me stessa a tutti

Io

faccio più traduzioni del Gawdamn all’ ONU

Lasciate perdere

Sono stanca di tutto questo

Sono stanca di riempire le vostre lacune

Sono stanca di essere la vostra assicurazione contro l’isolamento dei limiti che vi siete imposti

Stanca di fare la pazza durante le vostre cene in vacanza

Stanca di essere quella in più ai vostri brunch domenicali

Stanca di essere l’unica amica nera di 34 persone singles bianche

Trovate un altro collegamento con il resto del mondo

Trovate qualcosa d’altro per farvi legittimare

Trovate qualche altro modo per essere politici e alla moda

Io non sarò il ponte alla vostra femminilità

della vostra virilità

della vostra umanità

Sono stanca di ricordarvi di non chiudervi fuori troppo strette per troppo tempo

Sono stufa di mediare con il vostro lato peggiore a nome dei vostri lati migliori

Io sono stufa di dovervi ricordare di respirare prima di soffocare nella vostra lucida follia

Lascia perdere 

Adattati o annega

Cresci o muori

Il ponte che devo essere è il ponte verso la mia forza

Mediare le mie debolezze

Io voglio essere il ponte verso il nulla

ma devo essere davvero me stessa 

e allora io sarò utile

 

 

 “The Bridge Poem” di Kate Rushin

IRREDUCIBLE

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L’autista dell’autoambulanza mi venne incontro e il suo viso tradiva una smorfia che non riuscii a identificare. Non lo conoscevo, sono certa che le nostre esistenze non si erano mai sfiorate eppure mi guardava fisso negli occhi sul punto di esplodere. Ed esplose: “ Io gliel’ho detto e ridetto ma quella niente, continuava a urlare con le mani attaccate al manubrio: “Me la me bicicleta an la mol brisa, lu al faga quel cag par ma me an la moll brisa”.

Lei mi capisce, si, me lo dica che mi capisce. Trasportiamo gli sfollati tutto il giorno e abbiamo i minuti contati e quella non voleva salire sull’autolettiga. Avevo un bel da spiegarle che non poteva portarsi dietro la sua bicicletta ma quella insisteva “ Le ho detto che senza la mia bicicletta non vado da nessuna parte, chiami chi vuole, i servizi sociali, la polizia, i carabinieri ma io senza la mia bicicletta non mi muovo”.

Giuro che l’ho anche supplicata, ho fatto appello al suo buon senso, ho cercato di spiegarle che i regolamenti me lo vietavano e che avrei avuto delle grane ma quella è stata implacabile: “O, umarell, ma lu l’è dur ad comprendonio sal? Glielo torno a dire per l’ultima volta: la mia bicicletta è l’unica cosa che mi è rimasta. Ho perso tutto, la casa, i miei ricordi, l’unico paio di mutande che ho lo porto addosso e lei vorrebbe che io lasciassi qui la mia bicicletta?!?!? Ma lu l’è mat! Allora o carica in ambulanza anche la bicicletta o io non mi muovo da qui, sonia stada ciara?”

Ho caricato la vecchia e la sua bicicletta in autolettiga andando contro tutti i regolamenti e le ho portate insieme fino qui in romagna e adesso mi aiuti a tirarle giù che devo andare a prendere degli altri sfollati. Ma voi emiliane siete tutte così?

“Anche peggio. Forza che l’aiuto. io prendo la vecchia ma lei scarica la bicicletta eh?”

 

GENETLIACO

Era il 4 luglio 2003.

Sono passati 9 anni.

E sono ancora qui.

E ho ancora voglia di scrivere.

E ho ancora voglia di leggere.

E custodisco ricordi.

E potrei vendere nottate.

E visi e sorrisi e nick.

E abbandoni.

Poi solitudini e pianti.

E Botero e le sue donne dagli occhi vuoti.

E intrecci sfilacciati dal tempo.

Già. Il tempo.

Quello che non ho e che vorrei comprare,

Quello che mi porto nel nick.

Quello che mi abbraccia e non mi lascia libera.

Si.

Sono ancora qui.

Ad un orario umano.

Ma la notte, l’ho imparato, si sgrana senza fretta.

Come carezze sui visi offesi.

DOPO


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Sono nel piazzale davanti a casa.

Gli altri, i condomini, quelli con cui ci si scambia il saluto, quelli che si chiedono ancora che lavoro, di preciso, faccio, quelli quelli che non ho mai visto detestando le riunioni di condominio, insomma, gli altri, sono lì, con gli occhi smarriti. Dov’è stato l’epicentro? Chi ha un collegamento internet? Cazzo, i cellulari non funzionano! Mia figlia è a scuola, non so niente di lei, non so niente di niente adesso. Le domande si susseguono senza aspettare risposta. Arriva l’ingegnere quello del primo piano e grida “mamma, mamma, mamma” la voce è incrinata ma grida con rabbia. Si, la Silvina non c’è, non è scesa. Lui entra.

Scende dall’altro lato del palazzo un vecchio appoggiato al deambulatore.

Perché l’ingegnere non scende?

Arriva un’auto e parcheggia a debita distanza dal palazzo. “Stavo lavorando e le capriate hanno iniziato a caderci addosso” Si’, perché adesso sappiamo cosa sono le capriate, quanto regge il cemento armato e che quei maledetti capannoni li hanno costruiti senza imbullonare le capriate ai piloni.

Ma l’ingegnere?

Arriva la ragazza. Era a scuola poi il boato, quell’urlo della terra che una volta sentito ti rimane marchiato a fuoco nella testa. Racconta, concitata, di quello che ha visto tornando a casa. Anche lei ha gli occhi della paura. Parla di chiese crollate, fabbriche distrutte, strade intasate. E i cellulari non prendono e sto cazzo di madre dell’ingegnere dov’è?

La signora seduta su una sedia è ferita: stava facendo terapia riabilitativa dopo un’operazione all’anca, la fisiatra cerca di tranquillizzarla. “Si, chiamiamo, appena torna il segnale, chiamiamo”.

Mi accorgo ora della ragazzina che piange e della signora con la tinta in testa. Erano dal parrucchiere raccontano. La finta bionda è scappata ma la ragazzina era in bagno a fare pipì e la porta non si apriva e lei urlava terrorizzata ma non serviva perché la porta si è aperta solo quando sono riusciti a sfondarla e ora, la ragazza, piange e trema. Muta.

Finalmente scende la mamma dell’ingegnere con l’ingegnere, le gambe le tremano e anche lei ha negli occhi la paura.

Prendo una sedia dallo studio della fisiatra e la faccio sedere.

Si, ci siamo tutti, credo.

La napoletana sviene. Anziani instabili, vecchie con badanti al fianco, respiro affannoso ma vigili e attenti e la napoletana sviene. Perché le napoletane svengono? Gli uomini corrono e la adagiano a terra. Le diamo da bere? No! Alziamole le gambe! Mah. Opterei per l’acqua in faccia e che si riprenda in fretta: i tre pargoli frignano e li deve calmare.

Si inizia a diventare nervosi e puntuale arriva un’altra scossa. Mia madre avrebbe detto: “Questa si fa dare del voi” per accentuarne l’importanza.

Quando arriva, gli sguardi sono persi, le braccia si allargano per cercare un equilibrio, le gambe non smettono di tremare.

Ci siamo ancora tutti.

perchè la terra che ti trema sotto i piedi costringe chi c’è, chi è sopravvissuto, a contarsi e i conti devono sempre tornare.

Se ti allontani avverti, se decidi di rientrare comunicalo, se te ne vai fa in modo che lo sappiano tutti. 

” Io me ne vado. Vado a filmare, se c’è ancora qualcosa da filmare.”

“Noi siamo qui” è la risposta.


5.9

 

 

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La forte scossa è arrivata. E io stavo dormendo.

Sono stata sollevata, poi di nuovo giù con violenza, a peso morto e ancora una volta sollevata e ricaduta sulle lenzuola. Non era ancora finita. L’onda si è sfogata, iniziava il ballo. E’ stato allora che mi sono aggrappata al cuscino. Non pregavo. Attendevo la prossima mossa della bestia che non paga ha iniziato a sbattermi a destra e a sinistra. Io sempre stretta al mio cuscino.

Non avevo peso, non avevo pensieri, non avevo voglia di morire. Non si può morire in maglietta rosa e fuseaux comprati a un euro al mercato dei cinesi della domenica. Non si può morire con ancora i cispi negli occhi e l’alito pesante di chi, fumatore, non si è ancora lavato i denti. Non si può morire una mattina di maggio, il 29 maggio, mentre il tulipano ha aperto la terza foglia.

Infatti non sono morta.

Quando la bestia si è stancata di giocare, ho cercato le ciabatte e sono uscita dalla camera da letto. Ho percorso il corridoio buttando l’occhio in studio: il pavimento era un tappeto di libri, fogli, carte, appunti, bollette pagate e una befana con la scopa spezzata.

Non c’era luce, le gelosie erano chiuse. Buio.

Arrivo alla porta di cristallo. Ha retto. La spingo piano, ho il terrore di vedere il peggio ma è buio, vedrò poco, mi incoraggio. Un tappeto, questa volta di vetri, aspetta che passi per attaccarsi alle mie ciabatte.

Poi grida. E’ la signora del piano di sotto che urla. Ha due bambini attaccati alla vestaglia e uno piccolissimo, eccolo dunque quello che piange tutta la notte, al seno.

“Sono qui, stia calma, adesso arrivo. Stia calma, è passato. Ora scendo. E’ tutto passato”. Non è passato un cazzo ma qualcosa devo pur dirle.

Rientro in casa, prendo la borsa, che dal 20 maggio contiene la mia vita, e la videocamera. Non un vestito, un paio di pantaloni, un calzino, un ricordo, lascio dentro anche l’album delle foto di mio nonno. E’ la mia storia e non sono riuscita a prenderla.

Penso a quello mentre scendo le scale e rincuoro la madre isterica.”Devo riprendere l’album con le vecchie foto del nonno in divisa da fante in bicicletta e il suo matrimonio: una sola foto davanti a casa, il suo viso ironico e l braccio posato sulla pancia a sostenere la nonna in abito grigio con piccoli pois bianchi e quello sfizioso cappellino conservato con cura per anni. Mi concentro sulle foto mentre scendo le scale, sui particolari, così non penso, scanso la paura di un’altra scossa. Devo continuare a pensare ad altro se voglio vincere.

PRIEST

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Così, alzi la cornetta e dall’altro capo ti dicono che  Claudio ha un tumore al pancreas. E’ in terapia intensiva. Tu sai che il tumore al pancreas non perdona. Hai visto andarsene con lo stesso male la Pia, la Carmen, Luciano. E’ bastardo il cancro al pancreas, molto più bastardo degli altri tumori. In quel momento senti che le parole non ti escono più, aggrovigliate come sono al magone così ti si trasformano in lacrima che respingi perché sei adulta, perché conosci il mondo, perché hai visto la sofferenza, perché non doveva capitare al lui, no, non a lui. Prendi un altro ma non lui e se hai le idee confuse te ne fornisco una lista intera di preti senza credo. Ho conosciuto tanti preti senza fede. Preti entrati in seminario perché la famiglia non aveva da sfamarli, preti entrati in seminario perché era l’unico modo per farli studiare, preti entrati in seminario per vanità della famiglia. Claudio no. Claudio ha fede. Crede in Dio. E come ogni pazzo di Dio sa realizzare i sogni. Claudio che ha costruito una chiesa per il suo Dio giocando a briscola con i senza Dio. Con Claudio ho parlato delle ore e per ore abbiamo riso sguaiatamente come lavandaie in vacanza. Perché le nostre risate erano uguali e i nostri occhi sapevano anche quello che non riuscivamo a dirci.

Adesso vorrei avere braccia chilometriche per abbracciare quella circonferenza imbarazzante e sentirlo ripetermi all’orecchio: forza, che ce la fai, lo so che ce la puoi fare. Adesso vorrei quella pizza al peperoncino che mi presentasti e io cacciai indietro riempiendoti di insulti. Adesso vorrei poter credere che Dio si è sbagliato.

Dio, ti prego, Claudio è talmente rompipalle  che di uno come lui non te ne faresti niente, ti sconvolgerebbe soltanto l’assetto del Paradiso. Dio, fidati, lascialo perdere e abbandonalo a noi che ci siamo già abituati a seguirlo fin dentro i suoi sogni perché sono i nostri, anche se ancora non lo sappiamo.